"La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture non mancando mai, soprattutto nella liturgia, di nutrirsi del pane della vita, sia della Parola di Dio, sia del Corpo di Cristo". (Concilio Vaticano II)

domenica 9 ottobre 2011

Capire la Santa Messa - XVI Appuntamento

Torna l'appuntamento domenicale con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:

CAPIRE LA MESSA
16° PARTE

 I riti dell’offertorio

La preparazione dei doni
 
Prima dell’offertorio, sull’altare non ci sono che una tovaglia che manifesta che l’altare è proprio la tavola del banchetto eucaristico, delle candele che indicano che questo pasto è sacro e un crocifisso che ricorda che ogni messa noi siamo ai piedi della croce. Il celebrante dispone il corporale, panno bianco quadrato, chiamato così perché un tempo si deponeva direttamente su di esso l’ostia consacrata, il corpo di Cristo. Vicino al corporale o sopra di esso si mette un purificatoio, piccolo tovagliolo piegato in lunghezza, destinato a detergere il vino consacrato e a “purificare” (nel senso di “desacralizzare”) il calice dopo la comunione. Questo panno non si deve confondere con il manutergio, da “mano” e tergere “asciugare” che il sacerdote utilizza per asciugarsi le mani. Vi si colloca inoltre il messale che contiene tutte le preghiere della messa. Prima di essere disposti sull’altare, questi oggetti sono stati preparati su un piccolo tavolo che si chiama credenza.

I vasi sacri
I ministranti portano i vasi sacri chiamati così perché sono essi che conterranno il corpo e il sangue di Cristo. Hanno dei nomi un po’ complicati come patena, calice o ciborio. La patena, dal latino patena, “vaso vuoto” di forma circolare e concava è destinata a ricevere le ostie durante la celebrazione della messa. Fatta di materiale solido e nobile, essa è accompagnata dal calice. Il calice viene dal greco kulix e dal latino calix che designano una “coppa”. Il calice contiene il vino che diventerà il sangue di Cristo. Quando i fedeli a messa sono numerosi le ostie da consacrare vengono collocate nei cibari. L’origine di questa parola è poetica: kiborion designa il frutto della ninfea e per estensione, la coppa che ha la forma di questo frutto. A differenza del calice, esso comprende un coperchio, spesso sormontato da una croce perché opportuno che nel tabernacolo dove si conserva il santissimo sacramento, le ostie siano nelle migliori condizioni di conservazione. Oggi la parola ciborio si usa meno, è infatti più comune la parola pisside. Il pane è, almeno in occidente, l’alimento fondamentale per gli uomini, a tal punto che è diventato il simbolo di ogni alimento. E’ il frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Per avere del pane, occorrono prima di tutto una buona terra, l’acqua e il sole. Ma anche molto lavoro, dall’agricoltore che semina, ara, miete e batte le spighe per estrarne i grani, fino al mugnaio che produrrà la farina e al panettiere che lavorerà la pasta e la cuocerà. E’ un bel simbolo di ogni nostro lavoro che presentiamo a Dio. I padri della chiesa hanno messo in rilievo che il pane, come il vino del resto, è u n segno di unità: dei grani così diversi sono impastati per formare una sola farine e un solo pane. Così la comunità unificata dall’azione dello spirito santo si comunica al medesimo corpo di Cristo per formare ormai un solo corpo. Possiamo leggere della Didaché uno dei documenti cristiani più antichi: “come questo pane che noi spezziamo, una volta disseminato sulle colline è stato raccolto per non farne più che uno solo, così la tua chiesa sia radunata dalle estremità della terra nel tuo regno!”. Il Cristo ha scelto questo cibo ricco di significato per darsi a noi. Già nel discorso sul pane di vita (Gv 6), Gesù dichiara che egli è “il pane di Dio, colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (6,51). Questo cibo viene dal Padre: è quello che noi sollecitiamo nel Padre nostro domandandogli “il nostro pane quotidiano”. Noi abbiamo la consuetudine di usare del pane azzimo, cioè non lievitato. Perché? Innanzitutto sicuramente in relazione alla Pasqua ebraica. Prima di passare dalla schiavitù alla libertà, Dio ha ordinato al popolo ebraico di mangiare rapidamente l’agnello e il pane azzimo. Nell’ultima cena condivisa con i suoi discepoli, Gesù ha dunque preso del pane azzimo e noi vogliamo fare lo stesso. Ci sono anche delle ragioni pratiche: si conserva più a lungo del pane lievitato e fa meno briciole quando lo si distribuisce. Questo pane diverso ci ricorda che l’eucaristia non è un pasto come tutti gli altri. Nello stesso tempo è importante che le ostie conservino intatto il gusto del pane. Ostia viene dal latino hostia che significa “vittima”. L’ostia designa dunque la vittima offerta in sacrificio e che prima di essere presentata a Dio è stata colpita, immolata.

Il vino

“Il vino rallegra il cuore dell’uomo”. E’ il segno della festa e anche il simbolo delle nozze eterne. In occasione dell’ultima cena, offrendo la coppa del vino, Gesù aggiunge che non berrà più d’ora in avanti il frutto della vite fino a che non sarà venuto il regno di Dio (Lc 22,18). Nell’attesa, questo vino sarà quello del suo sangue versato. Nel giardino degli Ulivi, mentre prova solitudine e l’angoscia fino a sudare sangue, Gesù parla di questo calice che egli accetta: “padre, se vuoi allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42) Perché si utilizza del vino bianco piuttosto che del vino rosso? Di nuovo per delle ragioni pratiche: il vino bianco macchia meno di quello rosso. Talvolta si usa del vino dolce perché si conserva più a lungo.

La processione delle offerte


Questo rito proposto dalla riforma liturgica del Vaticano II, rinvia ai primi tempi della chiesa quando i cristiani portavano il pane, il vino e l’acqua come pure il cibo, per il pasto comunitario, che si chiamava agape. Oggi non sono più i fedeli che preparano direttamente il pane e il vino (le ostie sono fabbricate dalle monache e salvo che nelle regioni viticole, il vino viene prodotto altrove), ma questa processione simbolizza la partecipazione dell’assemblea a questo atto di offerta: sono le nostre attività, il nostro lavoro e tutta la nostra vita che presentiamo al Signore, Dio ci ha colmato dei suoi doni, noi vogliamo offrirgliene una porzione simbolica, in riconoscenza dei suoi benefici. Più profondamente, siamo chiamati ad associarci al dono che il Cristo fa della sua vita. Questo è il momento di spossessarsi di se stessi per aprirsi con fiducia a Dio. E’ anche il mondo intero, con le sue sofferenze e le sue lacerazioni che noi rimettiamo nelle mani del Padre.

La questua

Per significare la nostra partecipazione all’offertorio, abbiamo sostituito i doni in natura con la questua. Ci si può domandare se sia questo il momento buono per farla, perché il rumore degli spiccioli disturba e distrae l’assemblea…. Tuttavia, la questua fa parte, a suo modo, della liturgia dell’offertorio. Con il nostro dono partecipiamo simbolicamente all’acquisto di queste offerte e inoltre al sostentamento della chiesa come pure dei suoi ministri e alle attese di coloro che sono socialmente più svantaggiati. Il denaro così raccolto è il segno materiale dell’offerta che noi facciamo di noi stessi, delle nostre forze e delle nostre energie.
 
Il canto d’offertorio
 
Possiamo eseguire un canto che accompagna l’offerta di Cristo perché la processione delle offerte rappresenta simbolicamente l’”entrata” di Cristo che viene a dare la sua vita. Questo canto ricorda le acclamazioni della folla quando Gesù è entrato a Gerusalemme.

La presentazione dei doni

Il sacerdote presenta questi doni a Dio. Egli alza leggermente la patena poi il calice. E’ un gesto eloquente per tutti: le nostre offerte terrene, simboli di tutta la nostra vita, sono elevate al mondo celeste. Il sacerdote pronuncia delle formule di benedizione che si ispirano alla liturgia ebraica: “Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te, perché diventi per noi bevanda di salvezza”. Benedire, bene-dicere significa “dire bene”. L’uomo vuole dire bene di Dio che lo colma, che lo ha benedetto con tutta la creazione. Alla formulazione ebraica delle benedizione del pane e del vino, il Messale romano aggiunge la menzione del “lavoro dell’uomo” con il Creatore per la valorizzazione della terra, una collaborazione indispensabile. Una sinergia (attività comune) tra Dio e l’uomo trova la sua dimensione nella liturgia, che è un atto comune tra Dio e il suo popolo per la celebrazione della loro alleanza. Alla benedizione pronunciata dal sacerdote per il pane e poi per il vino i fedeli sono invitati a rispondere con una acclamazione che è anche una benedizione “Benedetto nei secoli il Signore”.

La goccia d’acqua nel calice
 
Perché dunque il sacerdote versa un po’ d’acqua nel vino? L’origine pratica di questo gesto si trova nell’usanza giudaica e greca di mischiare un po’ d’acqua al vino che era troppo forte. Ma c’è certamente un significato più profondo. Ascoltiamo ciò che dice il sacerdote: “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Si tratta dunque di un magnifico simbolo della nostra umanità che si unisce alla divinità di Gesù. Già nel III secolo , san Cipriano scriveva: “Quando si mischia l’acqua al vino nel calice, il popolo non forma che una cosa sola con il Cristo (….). Questo congiungimento , questa associazione dell’acqua e del vino si compie nel calice del Signore in una maniera indissolubile, di conseguenza niente potrà separare il Cristo dalla chiesa (….). Essa gli sarà sempre attaccata e l’amore farà dei due un tutto indivisibile”. Una volta che l’acqua è mischiata al vino, non la si può più distinguere, né togliere. Così è della nostra unione con il Signore nell’eucaristia: noi non formiamo più che una cosa sola con lui. Questa goccia d’acqua è la nostra umile partecipazione, essa è certo molto piccola e limitata, ma è il Signore che non vuole fare nulla senza di noi, che ce la richiede.

“Accoglici o Signore”

Dopo aver benedetto Dio per il pane e per il vino, il sacerdote si inchina in un gesto di umiltà dicendo: “umili e pentiti, accoglici o Signore. Ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te”. Questa formula si ispira a un brano del profeta Daniele: il cantico di Azaria nella fornace. “Ora invece, Signore, noi siamo diventati più piccoli di qualunque altra nazione, oggi siamo umiliati per tutta la terra a causa dei nostri peccati (…). Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito perché non c’è delusione per coloro che confidano in Te” (Dn 3,37,39-40). Prima di offrire a Dio il sacrificio perfetto della nuova ed eterna alleanza, noi riconosciamo la nostra indegnità, ma sappiamo che Dio non respinge mai un cuore pervaso da umiltà e fiducia.
 
Incensare le offerte
 
Il celebrante incensa le offerte che diventeranno il corpo e il sangue di Cristo. E’ il segno che vuole fare salire le offerte verso Dio come l’incenso che si innalza. Egli incensa ancora una volta l’altare, segno di Cristo che si offrirà per noi sulla croce, “luogo” del sacrificio. Poi il turiferario incensa il sacerdote e i fedeli che si offriranno con il cristo, affinché siano essi stessi santificati da questa azione santa.

Il gesto del lavabo

Il sacerdote si lava le mani. Questo gesto si chiama “lavabo” non perché il sacerdote sta per lavarsi le mani al lavabo ma a causa della parola latina che incomincia il versetto di un salmo che lo accompagna: “Lavo (laverò) nell’innocenza le mie mani e giro attorno al tuo altare, o Signore (salmo 25(26),6). E’ la ripresa di un gesto ebraico di purificazione che anche Gesù praticò. In origine il sacerdote compiva questo gesto per ragioni d’igiene, perché le sue mani erano sporche dopo aver ricevuto le offerte in natura. Esso ha preso poi un significato spirituale. Lavandosi le mani, il sacerdote dice: “lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato”. Con queste parole d’umiltà, il sacerdote manifesta che egli è peccatore tanto quanto un altro battezzato. Al momento di compiere un’azione così grande, egli riconosce la sua indegnità e il suo bisogno di essere purificato.
 
La preghiera sulle offerte 

A conclusione della preparazione dei doni, il sacerdote invita l’assemblea ad alzarsi in piedi e a pregare: “Preghiamo fratelli perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente”. Questa formula esprime bene che il sacrificio eucaristico non impegna soltanto il sacerdote che lo offrirà e l’assemblea che si unisce a lui, ma anche la chiesa e l’umanità tutta intera.
I fedeli rispondono precisamente “il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa”. Questa formula breve esprime le due finalità del sacrificio: esso dà a Dio “ogni onore e gloria” come canterà la conclusione solenne della preghiera eucaristica e procura al mondo intero la salvezza. Solidale con tutta l’umanità, è il mondo intero che noi accogliamo nella nostra offerta ed è il mondo intero che beneficia del sacrificio di Cristo. Segue la preghiera sulle offerte che si chiamava un tempo secreta, non perché fosse segreta ma perché era la preghiera sui doni che erano stati messi da parte (secreta, da secernere “separare”, “mettere da parte”) per la celebrazione dell’eucaristia. Queste preghiere, spesso antichissime, cantano il mirabile scambio che si sta per compiere: i doni che noi offriamo a Dio sono chiamati a diventare per l’azione dello Spirito Santo, Dio stesso che si offre a noi. Noi non portiamo quasi mai nulla, semplicemente un po’ di pane e di vino, in cambio ci sono date tutte le ricchezze di Dio. Noi portiamo la nostra vita: una vita debole e ferita, una vita segnata dal peccato, il cambio riceviamo la vita del Risorto. Si, che meraviglioso scambio!

Ricapitolando
 
L’offertorio è il momento nel quale si preparano e si portano i doni che serviranno per l’eucaristia. E’ una specie di transizione tra la Parola e l’eucaristia, ma che nondimeno costituisce un tempo importante e denso di significato. Presentando il pane e il vino è tutta la nostra vita che noi presentiamo ed ci disponiamo così ad accogliere il nostro Signore. Questa presentazione è accompagnata da formule di benedizione che si ispirano alla liturgia ebraica. La goccia d’acqua versata nel calice manifesta la nostra partecipazione a questa offerta e la nostra unione a Cristo. L’incensamento è il segno che vogliamo fare salire le offerte a Dio come l’incenso che si innalza. Il lavaggio delle mani ricorda che il sacerdote è un uomo peccatore e che egli non sta all’altare in ragione dei suoi meriti o delle sue qualità, ma unicamente per il dono di Dio ricevuto con l’ordinazione. Infine, la preghiera sulle offerte e il suo dialogo manifestano che tutta la comunità è parte pregnante nella presentazione delle offerte e che noi celebriamo per il mondo intero. Viviamo intensamente questa liturgia dell’offertorio, offrendo noi stessi al Padre con il Cristo!

 

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