"La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture non mancando mai, soprattutto nella liturgia, di nutrirsi del pane della vita, sia della Parola di Dio, sia del Corpo di Cristo". (Concilio Vaticano II)

domenica 28 agosto 2011

Capire la Santa Messa - X Appuntamento

Torna l'appuntamento domenicale con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:
  
PREGHIAMO IL SIGNORE
LA COLLETTA O PREGHIERA DI APERTURA

La preghiera di apertura
 
Questa preghiera è lo sblocco della liturgia dell’accoglienza: una volta che la comunità si è radunata, ha cantato con un solo cuore, ha tracciato su di sé il segno della croce, ha proclamato la sua fede in Dio Trinità che è sempre con noi, si è preparato in profondità ai grandi misteri che seguiranno, e ha cantato la gloria di Dio, non le resta altro che di immergersi in una preghiera comune. Questo è dunque il ruolo di questa preghiera, la prima di tre orazioni “mobili” della messa. Orazione viene dal latino oratio “parola”, “discorso”, “preghiera”, derivato dal verbo orare “parlare”, “dire”, “implorare”. In senso letterale, una orazione è una parola indirizzata a Dio, una preghiera formulata in sua presenza. Si distinguono l’orazione personale, preghiera intima, dialogo interiore prolungato con Dio e l’orazione liturgica espressione pubblica e comune dell’assemblea in preghiera, pronunciata dal sacerdote a nome della chiesa. Mi piace ricordare che questi due tipi di preghiera personale e comunitaria (in famiglia o in parrocchia) sono essenziali e non possono vivere l’una senza l’altra. Una preghiera che fosse solo individuale rischierebbe di intiepidirsi per mancanza di stimolo e di condivisione della fede; una preghiera che fosse solo comunitaria si ridurrebbe in fretta a delle formule che risuonano senza toccare il cuore. Nei riti della preghiera di apertura, entrambe le preghiere potranno avere il loro posto: durante il periodo di silenzio, ciascuno prega personalmente nel segreto del suo cuore, prima che il sacerdote raccolga queste preghiere e preghi a nome di tutti. Questa preghiera porta anche il nome di colletta perché essa “raccoglie” e riunisce le diverse domande dei fedeli in una sola preghiera; è compito del sacerdote presentare a Dio, a nome della comunità riunita il compendio della preghiera di tutti. E’ ben per questo che il sacerdote si esprime sempre nella prima persona del plurale. La preghiera d’apertura scompone in quattro momenti: l’invito, il periodo di silenzio, l’orazione pronunciata dal sacerdote e l’Amen proclamato da tutta l’assemblea.

L’invito
Il sacerdote invita l’assemblea alla preghiera. Il rituale prevede queste semplici parole: “Preghiamo (il Signore)”.

Un periodo di silenzio
Dopo questo invito, osserviamo un breve periodo di silenzio durante il quale ciascuno può raccogliersi, pregare, prendere coscienza della presenza del Signore, formulare interiormente le sue domande, prima che il celebrante le raccolga come spighe di grano in un solo fascio. Questo tempo di silenzio non è un interludio durante il quale attendiamo il seguito. E’ un momento privilegiato nel quale preghiamo e dunque agiamo insieme, con un solo cuore. Occorre insistere sull’importanza di questo silenzio. Certo, la messa non è il luogo dell’orazione personale, abbiamo tutto il resto della settimana per questa. Ma è importante che vi siano dei momenti di silenzio nella liturgia, per evitare che essa non sia che un fiume ininterrotto di parole…. Questi silenzi non devono essere dei “tempi morti”, ma dei silenzi abitati, come questo momento di preghiera all’inizio della messa o un periodo di silenzio più importante dopo la comunione.

L’orazione
L’orazione è generalmente indirizzata al Padre, come avviene nella preghiera eucaristica tutta intera. La conclusione ci indica che essa si fa sempre per Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Queste orazioni sono dunque sempre trinitarie. Come regola generale le orazioni sono composta da una invocazione, da una azione di grazie, da una richiesta e da una conclusione trinitaria.

L’invocazione
L’orazione comincia con una invocazione al Padre al quale ci si rivolge con: “Dio onnipotente, Signore, Dio eterno, Dio nostro Padre, Signore nostro Dio”, ecc.
L’azione di grazie
Questa invocazione è accompagnata da un’azione di grazie che descrive un aspetto del mistero di Dio che la liturgia della chiesa propone in questo giorno alla nostra meditazione. Ecco alcuni esempi: “O Padre, che in questo giorno, per mezzo del tuo unico Figlio, hai vinto la morte e ci hai aperto il passaggio alla vita eterna” (Pasqua). “Padre onnipotente ed eterno, che dopo il battesimo nel fiume Giordano proclamasti il Cristo tuo diletto Figlio, mentre discendeva su di lui lo Spirito Santo” (Battesimo di Gesù). “O Dio, sorgente di ogni bene” (X Domenica). “Dio onnipotente ed eterno, che ci dai il privilegio di chiamarti Padre” (XIX domenica). “O Padre, che ci hai donato il Salvatore e lo Spirito Santo” (XXIII domencia).
La domanda
Segue una domanda legata a questa azione di grazia perché i cristiani possano vivere di ciò di cui rendono grazie. Esempio: “Concedi a noi, che celebriamo la Pasqua di risurrezione, di essere rinnovati nel tuo Spirito, per rinascere nella luce del Signore risorto” (Pasqua). “Concedi ai tuoi figli, rinati dall’acqua e dallo Spirito, di vivere sempre nel tuo amore” (Battesimo di Gesù). “Ispiraci i propositi giusti e santi e donaci il tuo aiuto, perché possiamo attuarli nella nostra vita” (X domenica). “Fa’ crescere in noi lo spirito di figli adottivi, perché possiamo entrare nell’eredità che ci hai promesso” (IX domenica). “Guarda con benevolenza i tuoi figli di adozione” (XXIII domenica).
Conclusione
La formula di conclusione inscrive la nostra preghiera nel mistero della Trinità, dicendo: “Per il nostro signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio e vive e regna con te (Padre), nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli”. Da notare che le orazioni che si indirizzano al Padre e menzionano il Figlio alla fine terminano così: “Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli”. “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo figlio a dare la vita per noi, egli è Dio…..” (V domenica di Quaresima). Qualche rara orazione si rivolge direttamente al Figlio e ha questa conclusione. “Tu sei Dio e vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli”. Così, la preghiera della solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini) che utilizziamo anche in occasione della benedizione del Santissimo Sacramento: “Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’eucarestia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo corpo e del tuo sangue, per sentire sempre in noi i benefici della redenzione. Tu sei Dio e vivi e regni….”.
Tutte le preghiere si concludono con l’espressione “per tutti i secoli dei secoli”. Esse confessano la nostra fede in Dio il cui regno non avrà fine.

L’Amen dell’assemblea
Amen viene dalla parola ebraica Âman la cui radice evoca ciò che è solido, stabile, vero, fedele. Dire Amen significa affermare: “E’ così” oppure “Sia così”. Un tempo, si diceva giustamente: “Così sia” ma Amen ha un senso più forte: non esprime soltanto un auspicio, bensì una certezza sulla quale ci si può appoggiare. Dicendo Amen, l’assemblea esprime chiaramente il suo consenso a ciò che è stato appena detto o è stato appena fatto. Alla fine della preghiera di apertura quando rispondiamo Amen ciò significa che questa preghiera noi la facciamo nostra, noi vi aderiamo con tutto il nostro cuore. E dire che talvolta non si sente neppure l’Amen dall’assemblea, o si sente solo impercettibilmente… questi Amen permettono all’assemblea di esprimere la sua partecipazione piena e consapevole a ciò che Dio fa per essa e con essa.

Ricapitolando
I riti della liturgia dell’accoglienza, si concludono con la preghiera di apertura, che si chiama anche “orazione” o “colletta” perché il sacerdote, dopo un invito e un periodo di silenzio, durante il quale ciascuno può pregare e rivolgersi personalmente al Signore, “raccoglie” le diverse domande dei fedeli in un’unica preghiera. Questa preghiera di apertura si rivolge generalmente al Padre, e comporta, in linea di principio un’invocazione e un’azione di grazie seguite da una domanda e da una conclusione trinitaria. L’assemblea è chiamata a ratificare questa preghiera, a esprimere la sua adesione con l’Amen che pronuncia con forza e convinzione. Con questo Amen, l’assemblea si dice pronta a ricevere i doni di Dio che le porteranno la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica. L’Amen che noi pronunciamo a messa sia un vero Amen, un’adesione di tutto il nostro essere a ciò che celebriamo!

giovedì 18 agosto 2011

I lavori riprenderanno dopo il periodo di vacanza, Domenica 28 Agosto 

domenica 14 agosto 2011

Capire la Santa Messa - IX Appuntamento

Torna l'appuntamento domenicale con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:

L’INNO DI GLORIA

Dopo il rito penitenziale, cantiamo l’inno del Gloria, almeno nelle domeniche e nei giorni di festa. Vediamo qual è l’origine di questo inno e approfondiamo il contenuto.

Cantare la gloria di Dio

Si tratta di un inno, di un canto di lode, scritto originariamente in greco e la cui traduzione latina comincia con la parola gloria. Noi cantiamo “gloria” di Dio, cioè il suo splendore, la sua bontà, la sua maestà. Il Gloria comporta un aspetto solenne: non lo si canta se non nelle domeniche, nelle solennità e nelle feste. Ce ne asteniamo però nelle domeniche dell’Avvento e della Quaresima. Perché? Per vivere un tempo di “privazione” che ci permetterà di far vibrare con maggior solennità l’acclamazione degli angeli nella notte di Natale e la proclamazione della salvezza durante la veglia pasquale.

Il canto degli angeli
 
Questo canto di lode riprende parecchi testi delle Scritture, ma in maniera particolare, la lode intonata dagli angeli nella notte di Natale. “E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc2,13-14). All’inizio della celebrazione, acclamiamo a nostra volta questa nascita che è all’origine della nostra salvezza. E soprattutto ci uniamo al canto degli angeli come quando canteremo l’Alleluia o il Sanctus. Non è cosa da poco cantare con gli angeli! E’ bene che ci ricordiamo che tutta la nostra liturgia terrena si vuole a immaginare della liturgia celeste degli angeli che cantano senza sosta la gloria di Dio. Quando noi celebriamo ci uniamo alla lode degli angeli!

Un inno antichissimo

Questo inno antichissimo risale al terzo secolo, era in origine una preghiera del mattino, una preghiera di lode all’inizio di un nuovo giorno. A poco a poco è stato introdotto nella liturgia eucaristica. All’inizio, soltanto il vescovo lo diceva e solamente in alcuni giorni a cominciare da Natale. Il suo uso si è esteso ad altre circostanze e si è generalizzato. E’ notevole che questo inno si sia così radicato nella liturgia, senza interruzione nel corso dei secoli e senza passare di moda.

Come cantare il gloria?
Conviene cantarlo perché il gloria non è stato composto per essere letto…. È lì che incominciano le difficoltà. Il celebrante spesso molto imbarazzato davanti a fedeli che egli teme non sappiano cantarlo nella sua interezza. Allora, per non recitarlo in modo piatto, se ne fa un canto con un ritornello e delle strofe….!
I liturgisti insistono perché possiamo imparare a cantarlo interamente, al fine di rispettare lo stile e la natura di questo inno.

Un inno trinitario
Questo inno si rivolge al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo (anche se lo Spirito Santo è appena menzionato alla fine dell’inno). Possiamo distinguere quattro parti:
L’introduzione col canto degli angeli
Le lodi al Padre
Le lodi e le domande al Figlio
La conclusione trinitaria.

Il canto degli angeli

“Gloria a Dio”: gli angeli cantano la gloria di Dio, cioè riconoscono che egli è Dio e che è la fonte di ogni santità. “Nell’alto dei cieli” traduce il latino in Excelsis. Il Gloria ci fa accedere ad una realtà molto elevata, ben aldilà delle contingenze materiali, la pesantezza delle quali ci trascina sempre più in basso. Più ancora siamo associati alla preghiera di coloro che sono “nei cieli”; il cielo e la terra si mescolano nella lode. “E pace in terra”: la pace è ciò di cui l’uomo ha bisogno, ed è precisamente ciò che il re del cielo vuole per l’uomo. Il Cristo è “Il principe della pace” che permette questa riconciliazione tra Dio e l’uomo che il peccato aveva resa necessaria. La pace è un dono di Dio che non si impone, ma che chiede di essere ricevuto e di crescere nel cuore dell’uomo. “Agli uomini che egli ama”: qui la traduzione si allontana dal latino pax hominibus bonae voluntatis, “pace agli uomini di buona volontà”. In realtà la pace di Dio annunciata dagli angeli la notte di Natale è per tutti gli uomini. Il Gloria è una confessione dell’amore di Dio per tutta l’umanità.

Le lodi al padre
Segue come un’”irruzione” delle lodi rivolte al padre: “Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”. Quasi tutto il vocabolario della lode vi ricorre. L’uso del noi ne fa una preghiera comunitaria. Attenzione a non dire questi verbi troppo velocemente: essi hanno ciascuno il loro significato e la loro portata. “Noi ti lodiamo”: colui che ha compreso chi è Dio diventa un essere di lode. Vuole celebrare il suo Dio, festeggiarlo, danzare per lui, lodarlo senza sosta. Noi siamo fatti per la lode, per lodare Dio come respiriamo. “Ti benediciamo”: la benedizione che rivolgiamo a Dio non è possibile se non perché Dio stesso benedice noi. Egli è la fonte di ogni benedizione. Benedetti da Dio, gli uomini alzano a loro volta le mani per intonare un canto di benedizione. “Ti adoriamo”: l’adorazione è l’atteggiamento per eccellenza dell’uomo verso il suo creatore, è un atto di riconoscenza e di amore, il contrario dell’idolatria. “Ti glorifichiamo”: glorificare Dio è riconoscere che egli è Dio. Così l’uomo si mette al suo giusto posto, riflettendo questa gloria che viene da Dio. Nel vangelo, a contatto con il divino, gli uomini glorificano Dio. “Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”: l’evocazione della gloria di Dio suscita l’azione di grazie. Noi ringraziamo Dio per tutto ciò che egli è e per tutto ciò che egli fa. Questo grazie è l’atteggiamento umile di colui che non pensa che tutto gli è dovuto. Noi ci uniamo al Cristo che rende grazie al Padre suo. Il Gloria è già prefigurazione della lode della preghiera eucaristica. Poi, nominiamo colui che acclamiamo con queste tre denominazioni: “Signore Dio, re del cielo, Dio padre onnipotente”. “Signore Dio” sarà ripreso per il Figlio, perché essi condividono la medesima gloria. E’ una affermazione di fede, sulla scorta di san Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). “Re del cielo”: Dio è il re di tutte le realtà invisibili che lo adorano, mentre sulla terra noi chiediamo che il suo regno venga e cresca. “Dio Padre onnipotente”: noi proclamiamo il nome intimo di Dio che è Padre “papà”. Nello stesso tempo egli è l’”onnipotente”, non di una potenza schiacciante alla maniera del mondo, ma di una potenza paterna che veglia su di noi e ci fa crescere.

Le lodi e la domanda al figlio
Ci rivogliamo quindi al Figlio, cominciando ugualmente con una serie di invocazioni: “Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo; Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre”. “Figlio unigenito” non è da intendere nel senso di figlio unico. Il Cristo è il Verbo, realtà unica per la quale tutto è stato creato. Noi non abbiamo un altro Cristo. “Gesù Cristo”: diciamo il suo nome, il nome che salva, nome doppio che proclama che Gesù è il Cristo, il messia. “Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre”: egli condivide la medesima divinità di Dio, essendone il figlio. Egli è l’agnello di Dio in riferimento agli scritti dell’Antico Testamento, l’Agnello immolato che prende su di se tutte le colpe. Egli è anche l’Agnello vittorioso, di cui parla l’Apocalisse, il quale siede sul trono e purifica gli eletti col suo sangue. Avendo proclamato che il Cristo è colui che “toglie il peccato del mondo” e che è “assiso alla destra del Padre”, riconosciamo di avere bisogno di lui e formuliamo delle preghiere molto semplici: “abbi pietà di noi” e “accogli la nostra supplica”. Niente a che vedere con la “pietà” condiscendente…
Noi riprendiamo la preghiera del pubblicano “Signore, abbi pietà di me peccatore” che Gesù dà come esempio. E gli chiediamo di “accogliere la nostra supplica”, ciò che ci sta a cuore.

La conclusione trinitaria.
L’inno prosegue con la lode al Cristo: “perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’altissimo, Gesù Cristo”. Riconosciamo che Gesù condivide la divinità e la santità di Dio che canteremo nel corso della messa con il Sanctus. Terminiamo questo inno collegando il Cristo allo spirito santo e al Padre proclamando: “con lo spirito santo, nella gloria di Dio Padre. Amen”. E’ dunque tutta la Trinità che noi lodiamo e glorifichiamo.

Perché cantare così la gloria di Dio.
E’ vero ciò non aggiungerà nulla alla grandezza di Dio. Ed egli non ha “bisogno” che noi cantiamo le sue lodi. Ma Dio sa bene che la grandezza dell’uomo consiste precisamente nell’acclamare la grandezza di Dio, nell’aprirsi all’irraggiamento di questa gloria. Così, è importante che il Gloria sia un canto gioioso, un inno pieno di vivacità che mette il nostro cuore in festa e dà il tono a tutta la messa. Perché la messa non deve essere una celebrazione triste. Essa è un’azione fondamentalmente gioiosa: si viene a messa per rendere grazie a Dio, per lodarlo, cantarlo, glorificarlo, ringraziarlo, acclamarlo, celebrarlo. E’ ciò che fa il gloria a Dio, fin dall’inizio della messa. Ed è ciò che farà, in modo più esplicito ancora la grande preghiera eucaristica.

Ricapitolando
 
Il gloria è un canto di lode che incomincia con le parole degli angeli nella notte di Natale. Noi ci uniamo dunque al canto degli angeli, che cantano senza sosta la gloria di Dio e sono, in qualche modo, il modello della nostra liturgia terrena. E’ un inno antichissimo che è stato introdotto a poco a poco nella liturgia eucaristica. Esso comporta un aspetto solenne poiché non lo si canta che nei giorni di festa e nelle domeniche (salvo che in avvento e in quaresima).
“Cantare con entusiasmo un gloria a Dio in compagnia di altri cristiani”, scrive il padre Garneau, “non può essere che divertente e confortante. Cantare di buon cuore il gloria a Dio aiuta ad essere felici”.

 

venerdì 12 agosto 2011

Itinerari di fede - VII appuntamento

Torniamo a meditare attraverso il nuovo percorso ricco di diversi itinerari, sempre scritti dalla mano di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia (ringraziamo sempre Enza per l'opera non facile di trascrizione):  

ITINERARI

LA TIEPIDEZZA
 
Come ciechi e "affaticati" cadiamo nella: Tiepidezza. Se il cristiano cade nella tiepidezza perde la gioia e, per colpevole negligenza, allontana dalla mente e dal cuore l'immagine di Cristo: non lo vede e non lo ascolta. La tiepidezza è il pratico disprezzo dell'orazione e del sacrificio quotidiani, è il pensare "soltanto a se stessi e alle proprie comodità", è mancanza di finezza nel rapporto con Dio, è poca delicatezza, è "malavoglia nelle cose che si riferiscono al Signore", è l'amor proprio che porta ad agire per motivi umani. La santità del cristiano, invece, sta nell'amore e nella devotio, cioè nella fede amorosa e nell'amore che crede. La tiepidezza è davvero una grave malattia dell'amore, e può colpire in qualsiasi età della vita interiore. Causa della tiepidezza è sempre lo scoraggiamento, la mancanza di speranza, di fede e di carità. San Tommaso definisce la tiepidezza come "una certa tristezza che rende l'uomo tardo a compiere gli esercizi dello spirito, a causa della fatica del corpo". San Tommaso, inoltre ci dice che la devozione, è come "la volontà decisa a impegnarsi in tutto ciò che appartiene al servizio di Dio". Questa devozione scompare, invece, nello stato di tiepidezza. Essa è sterile e dannosa, mentre l'aridità purifica l'anima e la conduce a una maggiore unione con Dio. Sono poche le cose desiderate così fortemente nella vita quanto la gioia e la felicità. Si ha l'impressione, talvolta, che queste parole-felicità, gioia, pace- esprimano realtà che somigliano a rare monete da collezione, di grande valore e difficili da reperire. La tranquillità l'hanno chiamata pace; la risata fragorosa, allegria; il piacere effimero, felicità; e così via. La vera gioia e la vera pace si trovano in Dio; al di fuori di lui non potremmo mai raggiungerle. Un giorno, rivolgendosi ai discepoli, il Signore disse: “Beati i vostri occhi perché vedono i vostri orecchi perché sentono”. La gioia- dice san Tommaso- è il primo frutto dell’amore e, pertanto, della donazione. Dimmi dove sta la tua felicità, potremmo dire, e ti dirò dov’è il tuo cuore. Noi siamo felici quando il Signore è dentro la nostra vita, quando non lo perdiamo di vista, né i nostri occhi sono appannati dalla tiepidezza o dalla mancanza di generosità. E’ in Cristo la nostra speranza. Poichè Cristo vive: Cristo non è un uomo del passato, che visse un tempo e poi se ne andò lasciandoci un esempio meravigliosi. La gioia cristiana ha una natura speciale: sa mantenersi salda in mezzo a tutte le bufere della vita, anche nei momenti più oscuri. Quando un cristiano è infelice e triste, vuol dire che qualcosa non va proprio nella sua anima. La fede è la sorgente della gioia cristiana. Il nostro ottimismo non si basa su ragioni umane, ma ha il suo fondamento in Dio. Chi vive della fede incontrerà difficoltà e lotta, dolore e anche amarezza, mai però lo scoraggiamento o l’angoscia, perché sa che la sua vita è utile, sa il perché della sua esistenza terrena. Quando ci sembra che tutto crolli davanti ai nostri occhi, non crolla nulla, perché “ Tu sei il Dio della mia difesa” Per di più senza ostacoli non ci sarebbe la possibilità di vincere, ne le virtù potrebbero raggiungere il livello richiestoci da Gesù. L’uccello può volare non solo perché ha le ali, ma anche per la resistenza dell’aria. Lui solo è sicuro baluardo che resiste a tutto; non vi è tristezza che Egli non possa curare. “Non temere, soltanto abbi fede” Tutti abbiamo bisogno di felicità. Paul Claudel, dopo la conversione, era solito ripetere: “Dite a tutti che l’unico dovere è la felicità” Perché essa è il segno che amiamo il Signore e che stiamo facendo un gran bene agli altri e a noi stessi. Dobbiamo essere come i primi cristiani: il loro modo di vivere attraeva per la pace e l’ottimismo con cui affrontavano i piccoli impegni quotidiani, o per la serenità davanti al martirio. Così dobbiamo essere noi, cristiani di oggi: seminatori di pace e di gioia, della pace e della gioia che Gesù ci ha guadagnato. La casa di una famiglia cristiana dev’essere allegra, perché la vita soprannaturale da slancio alle virtù della generosità, della cordialità, dello spirito di servizio… tanto strettamente legate alla gioia. La gioia di Dio è la nostra grande forza e un potente alleato nell’apostolato, perché ci aiuterà a trasmettere il messaggio di Gesù in modo amabile.

domenica 7 agosto 2011

Capire la Santa Messa - VIII Appuntamento

Torna l'appuntamento domenicale con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:


Il rito penitenziale N°8

Signore, Pietà!
Il rito penitenziale occupa un posto essenziale all’inizio della liturgia: essa ci prepara ad aprire il cuore al perdono e ai frutti che il Signore vuole darci in ogni messa. Se durante questo rito confessiamo i nostri peccati, confessiamo ancora di più la tenerezza e il perdono di Dio. E Dio ci manifesta la sia misericordia. Noi possiamo allora celebrare l’eucaristia con il cuore in pace, nella gioia, in festa.

Il sacerdote invita i fedeli a questa pratica penitenziale dicendo: “Fratelli e sorelle, per prepararci degnamente ai santi misteri riconosciamo i nostri peccati”, o altre parole di introduzione adatte alla liturgia del giorno. “Prepariamoci alla celebrazione dell’eucaristia”: noi siamo consapevoli di aver bisogno di una preparazione per vivere questo grande sacramento, un po’ come Mosè che si avvicinava al roveto ardente: la voce di Dio si fece allora sentire: “Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!” (Es 3,5). Non possiamo accostarci alla santa mensa in modo qualunque; bisogna prepararvisi. “Riconoscendo che siamo peccatori”: il senso di questa pratica non è di abbassarsi più in basso che a terra. Avvicinandoci a Dio vogliamo semplicemente fare la luce, la verità, confessare le nostre tiepidezze, le nostre mancanze d’amore, riconoscere che siamo peccatori e che abbiamo bisogno del cibo divino che è il sacrificio eucaristico, del sangue dell’alleanza versato per la remissione dei peccati. Riconoscere che siamo peccatori significa anche impegnarci in un cammino di conversione, avere un profondo desiderio di cambiare ciò che deve esserlo.

Un tempo di silenzio.

Dopo questo invito è bene rimanere qualche istante in silenzio per metterci davanti a Dio e prendere coscienza del nostro peccato, dello scarto tra ciò che il vangelo ci propone e ciò che noi viviamo. Noi ci mettiamo sotto lo sguardo di Dio e lo imploriamo dicendo per esempio: Signore, ti presento la mia vita; tu la conosci. Fa’ che io sia addolorato di amarti così poco e di non avere amato il mio prossimo. Apri il mio cuore chiuso. Fammi scoprire e misurare il mio peccato. Al posto del mio cuore indurito metti un cuore spezzato e contrito del male che ho fatto contro di te.

Il Confiteor – Confesso

Dopo questo momento personale diciamo insieme la magnifica preghiera del Confiteor: “Confesso a Dio onnipotente”. Abbiamo visto che la messa comincia con la confessione della Trinità, espressa dal segno della croce. La parola “confessione” significa tanto l’affermazione della propria fede (coloro che vengono torturati a causa della loro fede senza morire martiri sono chiamati “confessori”) quanto l’ammissione dei propri peccati. La confessione di fede viene per prima: la confessione dei nostri peccati deriva dalla nostra confessione dell’onnipotenza di Dio, che ci usa misericordia, perché non potrebbe esserci ammissione del peccato se non ci fosse prima una vera confidenza nella bontà davanti ai miei fratelli e alle mie sorelle, cioè nella chiesa. Riconosco chiaramente la mia responsabilità, sapendo che la misericordia del Signore è più grande delle nostre colpe, ma senza sottrarmi adducendo come pretesto: “Non è colpa mia, è a causa di….”. In ebraico, il verbo peccare significa “mancare lo scopo”, “sbagliare bersaglio”. Peccare è sbagliarsi sulla felicità, scambiare con Dio ciò che non lo è e distogliersi da lui, nostra vera felicità. Precisiamo quindi le principali modalità del peccato: “in pensieri, parole opere e d omissioni”. Tutte le zone della libertà, dell’intelligenza e dell’attività umana sono inglobate in questa confessione pubblica. Peccare con il pensiero non ci sembra troppo grave, perché non si vede. Eppure, a forza di avere pensieri impuri o malevoli, diventiamo più deboli e rischiamo proprio di passare all’atto. Neppure i peccati di omissione sono meno importanti: noi manchiamo sovente delle buone occasioni di fare il bene e di amare. “Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”, aggiungiamo battendoci il petto. Lo diciamo chiaramente, semplicemente, in verità, senza cercare scuse o altri colpevoli. Sono proprio io che ho fatto questo. Per questo motivo ci affidiamo alla preghiera dei santi e dei nostri fratelli: “E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro”. Questa supplica si rivolge per prima alla vergine Maria, la prima dei salvati. Poi agli angeli e a tutti i santi sui quali brilla lo splendore invisibile di Dio. Infine, alla totalità degli uomini, questi fratelli e queste sorelle conosciuti e sconosciuti che sono sempre la chiesa. Solidali nel peccato, lo siamo anche nostro cammino verso la santità. Non vi arriveremo da soli. Non è questa una bella affermazione della comunione dei santi?

Le parole di assoluzione

Il sacerdote conclude questa preghiera con una formula di assoluzione “Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna”. Le parole di assoluzione all’inizio della messa ci preparano, secondo le nostre disposizioni, alla celebrazione dell’eucaristia.  Precisiamo che questa assoluzione non è sacramentale, cioè non opera da se stessa il perdono dei peccati come fa invece il sacramento della riconciliazione (confessione). Essa implora questo perdono piuttosto che attuarlo. Lo si vede chiaramente nella maniera di esprimerlo: il sacerdote, cristiano con i suoi fratelli, dice “noi”, perché si mette tra i peccatori. Egli è parte pregnante, come ogni fedele, in questo atto di contrizione, in questa confessione del peccato comune a tutti. Non è la stessa cosa quando il sacerdote, nel sacramento della riconciliazione dà a colui che si è confessato l’assoluzione dei peccato dicendo: “E io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.

Il canto Kyrie

Dopo questa formula di assoluzione si canta Kyrie eleison o Signore, pietà. Ci si può domandare che cosa ci stia a fare questa invocazione quando si sono proprio appena ricevute le parole di assoluzione. Il canto del Kyrie ci permette di allargare la nostra preghiera e di invocare la misericordia di Dio per i nostri fratelli e per le nostre sorelle in umanità. Secondo l’Ordinamento generale del Messale romano il Kyrie è un “canto col quale i fedeli acclamano il Signore e implorano la sua misericordia”. E’ dunque un’acclamazione del Signore risorto, vittorioso sulla morte sotto tutte le sue forme, ivi compreso il peccato. Proclamando: “Tu sei Kyrios, il Signore risorto” aggiungiamo “(abbi) pietà” perché sappiamo che egli è colui che ci risolleva.

La seconda formula.

Al posto del Confiteor, si possono usare questi versetti della Bibbia pronunciati alternativamente dal sacerdote e dall’assemblea: Pietà di noi Signore. Contro di te abbiamo peccato, mostraci, Signore, la tua misericordia, e donaci la tua salvezza.
In poche parole è detto tutto: la domanda di perdono e il riconoscimento del peccato; l’implorazione della misericordia e l’affermazione dell’effetto che essa produce su di noi: noi saremo salvati.
Ritroviamo la prima domanda nel Salmo 24[25],11: “Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se grande”. La prima risposta si trova in Ger 14,20: “Riconosciamo, Signore, la nostra infedeltà, la colpa dei nostri padri: abbiamo peccato contro di te”. Il seguito viene dal Salmo 84[85],8: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”.

La terza formula.

La terza formula di preparazione penitenziale appare come uno sviluppo del Kyrie: Signore mandato dal Padre a salvare i contriti di cuore, abbi pietà di noi.  “Signore pietà”. Cristo venuto a chiamare i peccatori, abbi pietà di noi. “Cristo pietà”. Con queste invocazioni ci rivolgiamo con fiducia a Cristo: egli è mandato dal Padre per salvarci, è venuto per i peccatori e intercede per noi.



La benedizione dell’acqua e l’aspersione

Esiste ancora una quarta possibilità che si utilizza soprattutto nel tempo pasquale: il rito dell’aspersione. Il sacerdote benedice l’acqua dicendo: “Fratelli carissimi, in questo giorno del Signore, Pasqua della settimana, preghiamo umilmente Dio nostro Padre, perché benedica quest’acqua con la quale saremo aspersi in ricordo del nostro battesimo. Il Signore ci rinnovi interiormente, perché siamo sempre fedeli allo Spirito che ci è stato dato in dono. Dio eterno e onnipotente, tu hai voluto che per mezzo dell’acqua, elemento di purificazione e sorgente di vita, anche l’anima venisse lavata e ricevesse il dono della vita eterna: benedici quest’acqua, perché diventi segno della tua protezione in questo giorno a te consacrato. Rinnova in noi, Signore, la fonte viva della tua grazia e difendici  da ogni male dell’anima e del corpo, perché veniamo a te con cuore puro. Per Cristo nostro Signore”.  Questa acqua benedetta che riceviamo è un ricordo del battesimo, della nostra “immersione” nella morte e risurrezione di Cristo che ci purifica da ogni peccato.

Ricapitolando

Il rito penitenziale svolge un ruolo essenziale all’inizio della liturgia: non quello di colpevolizzarci, ma quello di prepararci alla celebrazione di questo grande mistero, aprendo il nostro cuore al perdono e ai frutti che il Signore vuole darci in ogni eucaristia. Il rito incomincia con un invito a prepararci alla celebrazione dell’eucaristia riconoscendo che siamo peccatori. Un tempo di silenzio ci permette di metterci con verità davanti a Dio e di prendere coscienza del nostro peccato. La preghiera Confiteor è una confessione che si rivolge a Dio con un riconoscimento pubblico (“a voi fratelli”) di tutte le modalità del peccato (“in pensieri, parole, opere ed omissioni”) e una richiesta di aiuto che manifesta la comunione dei santi. Con le parole di assoluzione, il celebrante implora il perdono del Signore. Infine, cantando il Kyrie, noi acclamiamo il Signore che ci perdona e intercediamo per il mondo intero. E’ importante, all’inizio di ogni messa che ci apriamo alla grazia e al perdono del nostro Dio. Potremmo, prima che la messa incominci, fare un piccolo esame di coscienza, al fine di domandare concretamente il perdono e l’aiuto del Signore.


giovedì 4 agosto 2011

Itinerari di fede - VI appuntamento

Torniamo a meditare attraverso il nuovo percorso ricco di diversi itinerari, sempre scritti dalla mano di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia (ringraziamo sempre Enza per l'opera non facile di trascrizione): 



ITINERARI
   C'ero anch'io...

C'ero anch'io, Signore Gesù, quella notte, nel giardino del Getsemani! Ero lì, con i tuoi Apostoli ancora sconvolti per tutto quello che ti avevano sentito dire, quella sera; per quei piedi lavati proprio da te, il Maestro; per quel incomprensibile, straziante annuncio della tua imminente morte! Ero lì, e ti ho visto piangere lacrime e sudare sangue, ti ho sentito implorare il Padre tuo di allontanare l'amaro calice della passione che sentivi vicino...io non capivo! Avrei voluto inginocchiarmi accanto a te, sulle pietre aguzze, asciugare il tuo sudore di sangue, accarezzare il tuo volto sconvolto, implorarti di fuggire lontano, di metterti in salvo dalla crudeltà degli uomini, ma ti ho sentito dire:" Non sia fatta la mia, ma la tua volontà, Padre"! Il peso di queste parole è stato troppo grande, per me: ti ho lasciato solo, mi sono allontanata e ho dormito, insieme ai tuoi apostoli.
Ti ho lasciato solo! C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel pretorio di Pilato! Ero lì, e sentivo la folla rumoreggiare, fuori; erano come impazziti, tanto da scegliere, urlando, la liberazione di Barabba e la tua condanna. Ero lì, quando i soldati ti legavano alla colonna; ero lì, quando i flagelli incidevano la tua carne, quando la tua schiena si inarcava per il dolore atroce. Avrei voluto strappare di mano ai soldati quelle fruste che si accanivano sulla tua carne innocente, avrei voluto liberare quelle tue mani che avevano portato sollievo a tante persone, avrei voluto gridare la mia rabbia per tanto strazio, ma non ho saputo fare altro che rintanarmi in un cantuccio nascosto: ho avuto paura di svelare apertamente il mio amore per te, avevo paura di essere riconosciuta come tua sorella, tua amica e mi sono nascosta.
Ti ho lasciato solo! C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel cortile del pretorio, quando Pilato ti consegnò ai soldati per la crocifissione! Ero lì, quando l'intera coorte iniziò a torturare il tuo corpo martoriato dalla flagellazione. Ti rivestirono di porpora e, intrecciata una corona con pungentissime spine, te la conficcarono nel capo, profondamente; si inginocchiavano davanti a te, uomo dei dolori, dicendoti:" Salve, re dei Giudei!", e ti sputavano addosso e continuavano a percuotere il tuo corpo straziato. Avrei voluto strappare spina per spina dal tuo capo, avrei voluto liberare il tuo santo corpo da tanta crudeltà, avrei voluto gridare a tutti che si ricordassero quante parole sananti avevi pronunciato, quanti peccati avevi perdonato, con quelle labbra ora tumefatte e sanguinanti. Invece, ancora una volta mi sono nascosta dietro le mie paure, la mia voglia di quieto vivere, la tentazione di non impicciarmi, di non rischiare, e sono fuggita. Ti ho lasciato solo!
C'ero anch'io, Signore Gesù, quando, carico della croce, percorrevi la via che portava al luogo del supplizio. Tanta gente urlava, ai lati, e ti scherniva: erano gli stessi che la domenica delle Palme stendevano i loro mantelli sotto i tuoi passi e ti chiamavano "Figlio di Davide". Ero lì, quando cadevi sotto il peso di quel legno! Avrei voluto togliertelo di dosso, asciugarti il volto come ha fatto la Veronica, offrirti dell'acqua, gridarti il mio dolore e la rabbia che provavo nel vederti sopportare così passivamente tanta crudeltà. Invece, non ho trovato il coraggio di farmi riconoscere; ho preferito assistere al tuo martirio senza compromettermi troppo. Ti ho lasciato solo! 


C'ero anch'io, Signore Gesù, quando i colpi del martello risuonavano nell'universo e il Figlio di Dio veniva inchiodato ad una croce, tra due malfattori. Ero lì, quando, ormai allo stremo, trovavi la forza di perdonare i tuoi carnefici "perché non sanno quello che fanno": così hai detto! Ero lì, quando hai consegnato tua Madre a Giovanni e Giovanni a tua Madre; c'ero anch'io, in quella consegna; c'ero anch'io, in quel perdono; c'era anche la mia salvezza, in quel "tutto è compiuto"! Avrei voluto abbracciare quella croce, che tratteneva il tuo corpo ormai senza vita; avrei voluto strappare di mano la spada che ti ha trafitto il costato; avrei voluto dare la mia vita per la tua, ma, ormai, era troppo tardi, tutto era irrimediabilmente finito! C'ero anch'io, Signore Gesù, davanti al sepolcro vuoto, quel mattino del primo giorno della settimana! Ero lì, con le altre donne, con Pietro, con Giovanni, con la Maddalena, a guardare stupita la pietra rimossa, le bende piegate, a chiedermi dove fosse il mio Signore. Ero lì, e non capivo, perché la mia fede era provata duramente dalla tua morte, ma anche perché sapevo di averti lasciato solo, e il mio cuore mi suggeriva rimorso e rimpianto. Ero lì, e piangevo e avrei voluto ancora una volta fuggire lontano, nascondermi al mio stesso dolore, consapevole che avevo cercato tanto il mio Signore, ma che la mia paura me l'aveva fatto perdere per sempre! Ed ecco che, improvvisamente, quando stavo per andarmene, sconsolata, ho sentito una voce dolcissima chiamarmi per nome: era la tua voce, Signore Gesù! Eri tornato, eri vivo, eri lì, davanti a me; eri venuto a cercarmi e mi avevi trovata. I miei abbandoni, i miei tradimenti li hai presto dimenticati; hai voluto dirmi che tu sei il vivente, che non mi lascerai mai, che la morte è vinta per sempre ed io sto partecipando, insieme a tutta la creazione, alla tua risurrezione. Cristo è risorto, alleluia!    
      
E' iniziato così il mio cammino con Gesù Crocifisso e abbandonato. Ero seduta di fronte al mio neurologo che con il volto preoccupato leggeva i risultati degli accertamenti da me eseguiti perché da tempo avevo dei problemi alla vista e alle articolazioni, tanto da non riuscire a camminare bene. Mi aveva accompagnato una mia carissima amica. Il neurologo mi guardava e comincia a parlare con termini medici a me poco chiari. Allora lo interrompo e gli dico: "Senti, parlami chiaramente, non ho problemi ad accettare qualunque sia la diagnosi". Mi guarda ancora quasi impacciato e mi dice: "Purtroppo è una forma di sclerosi multipla". La mia amica rimane quasi senza respiro, io non faccio certo salti di gioia, ma in quel momento guardo un piccolo crocifisso posto nel muro dietro la scrivania del dottore. Non ascolto più le sue parole, il mio dialogo è con Gesù crocifisso e abbandonato che in quel momento mi chiama a condividere con Lui la croce della sofferenza, come il Cireno che sulla strada del Calvario prende la croce di Gesù. Quella sera non dissi niente a mia figlia e mio marito, ma ho preso il Vangelo e leggo il discorso della montagna che Gesù fa alla folla e dice: "...beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli operatori di pace, beati i poveri di spirito perché di loro sarà il regno de cieli...". Con quiete parole ho messo nelle mani di Gesù le mie preoccupazioni, la mia sofferenza e la croce è diventata "un giogo leggero e soave" perché Gesù dice ancora: "venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò". Questo dialogo con Gesù scaturisce dalla preghiera e meditazione della sua Parola, mi aiuta a liberare lo spirito da ogni cosa che mi impedisce di entrare in comunione con il Padre sempre pronto ad ascoltarci e risollevarci. L'apostolo Luca nella prima domenica di avvento ci dice "vegliate e pregate, alzate il capo non lasciatevi appesantire dagli eventi della vita". Ma gettiamo ogni preoccupazione nelle mani di Dio ed egli ci solleverà. Solo così si può accogliere Gesù che per amore nostro nasce nella povertà e umiltà, Dio mi ama e ci ama di un amore infinito, sono felice di averlo incontrato, in modo particolare, in questo momento di prova. Ogni giorno offro a Lui la mia malattia, la mia sofferenza per tutti gli ammalati, chi si sente solo, i giovani, affinché possiamo riscoprire la tenerezza dell'amore di un Padre che non ci abbandona mai.