"La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture non mancando mai, soprattutto nella liturgia, di nutrirsi del pane della vita, sia della Parola di Dio, sia del Corpo di Cristo". (Concilio Vaticano II)

mercoledì 26 febbraio 2014

Capire la Santa Messa - Ultimo Appuntamento

Torna l'appuntamento con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:


CAPIRE LA MESSA
25a PARTE
LA MESSA E’ FINITA, ANDATE

La benedizione e l’invio
E siamo alla quarta e ultima parte della messa, con i riti brevissimi dell’invio: un ultimo dialogo, la benedizione e il congedo. In alcune parrocchie questi riti sono preceduti da alcuni avvisi e informazioni sugli eventi della settimana.
Precisiamo subito che non si tratta di un fine – non si “conclude” la messa, anche se si sente talvolta qualcuno dire: “Finisce presto?” – ma di un invio: noi stiamo per ripartire, forti di ciò che abbiamo vissuto, ascoltato e ricevuto. La struttura dei riti dell’invito è del tutto simmetrica a quella dei riti di apertura.

La benedizione finale
La benedizione comincia di nuovo con il dialogo: “Il Signore sia con voi”. “E con il tuo spirito”. Ripreso al termine della celebrazione, questo dialogo riafferma con più forza ancora la presenza di Gesù in mezzo ai suoi. Dopo essersi comunicato, e dopo che anche i fedeli si sono comunicati, il celebrante augura ai fedeli di continuare a vivere alla presenza del Signore. Poi il sacerdote benedice l’assemblea da parte del Signore. Questa benedizione finale implora la protezione del Padre, del Figlio e dello Spirito su coloro che stanno per ripartire. Essa chiede che rimangano in loro i doni che hanno ricevuto, perché continuino a vivere dello Spirito dell’eucarestia che hanno appena celebrato. Questa benedizione si radica nell’AT dove i sacerdoti erano invitati a benedire l’assemblea al termine di ogni celebrazione liturgica. Il libro dei Numeri riporta anche una formula che si può ancora utilizzare: “Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “ Così benedirete gli Israeliti e direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti dia pace”. (6, 22-27). E’ la benedizione di Dio che viene invocata. E’ lo stesso per la benedizione del sacerdote alla fine della messa: “Vi benedica Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo”. Questa benedizione finale ricorda anche l’ultimo gesto di Gesù, alla fine del Vangelo di Luca, che è stato elevato al cielo mentre benediceva i suoi discepoli: “Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo” (24,50-51).
Allo stesso modo, prima di rimandare i fedeli nel mondo ad annunciare ai loro fratelli la resurrezione di Cristo, il sacerdote eleva le mani su di loro, li segna con il segno della croce e invoca su di loro la benedizione di Dio. Nelle grandi feste il Messale prevede una benedizione solenne e più ampia, essa sviluppa il mistero festeggiato in questo giorno. I fedeli ricevono attivamente la benedizione rispondendo Amen a ogni invocazione. Ecco la benedizione solenne nella notte di Pasqua:
In questa santa notte di Pasqua, Dio Onnipotente vi benedica e vi custodisca nella sua pace. – Amen.
Dio, che nella Pasqua del suo Figlio ha rinnovato l’umanità intera, vi renda partecipi della sua vita immortale. ─ Amen.
─ Voi, che dopo i giorni della passione celebrate con gioia la resurrezione del Signore, possiate giungere alla grande festa della Pasqua eterna. ─ Amen.
─ E la benedizione di Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre. ─ Amen.
Il Messale propone anche altre benedizioni solenni per circostanze particolari come una festa parrocchiale, una consacrazione, un battesimo, ecc.
Esiste una formula di benedizione riservata ai vescovi: ─ Sia benedetto il nome del Signore. ─ Ora e sempre. ─ Il nostro aiuto è nel nome del Signore. ─ Egli ha fatto cielo e terra. ─ Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito santo. ─ Amen.
Il vescovo traccia allora sull’assemblea un triplice segno di croce, segno di pienezza della benedizione che egli dà, in quanto successore degli Apostoli, da parte del Signore.

Il congedo
La messa si conclude con le parole dell’invio, che sono normalmente pronunciate dal diacono (oppure in sua assenza dal presbitero): “La messa è finita: andate in pace”. La versione originaria latina è più concisa ma anche più cruda: Ite, missa est, “Andate questo è il rinvio”. In effetti, come abbiamo visto nel primo capitolo, la parola latina missa significa “azione di lasciare andare”, “rinvio”. Il Signore ci invia, come ha inviato un tempo i suoi discepoli: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16, 15). “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”
(Mt 28, 19-20) . La messa in chiesa è finita, è dunque la missione nel mondo che incomincia. Noi ci siamo lasciati radunare dal Signore, ora siamo invitati per vivere concretamente questa fraternità con i nostri fratelli, e con le nostre sorelle in umanità. Abbiamo ascoltato la Parola di Dio, l’abbiamo meditata e acclamata, ora siamo invitati al fine di metterla in pratica e di testimoniarla. Abbiamo reso grazie a Dio nel corso della preghiera eucaristica, ora siamo inviati per proseguire nell’azione di grazie, scoprire l’azione del Signore nella nostra vita e la bellezza delle sue opere, e aiutare coloro che non hanno speranza. Abbiamo ricevuto Cristo che si è dato per amore fino alla fine, ora siamo inviati per dare la nostra vita come Egli ha dato la sua, per amare e perdonare come Lui. Abbiamo pregato per la pace e interceduto per coloro che soffrono, ora siamo inviati per agire concretamente, consolare coloro che faticano, riconfortare coloro che soffrono e costruire la pace intorno a noi. Con un ultimo grido di gioia e di fede, l’assemblea esprime la sua riconoscenza per questa eucarestia: “Rendiamo grazie a Dio”. A Pasqua durante l’ottava seguente e a Pentecoste, fine del tempo pasquale, si aggiungono degli Alleluia a questo dialogo di congedo che è, se possibile, cantato: ─ La messa è finita: andate in pace. Alleluia, Alleluia. ─ Rendiamo grazie a Dio. Alleluia, Alleluia.
Nietzsche diceva: Crederei più facilmente se i cristiani avessero una faccia da salvati”. E noi, che faccia abbiamo quando usciamo dalla chiesa? Alcune parrocchie e comunità religiose hanno preso la bella abitudine di concludere la messa con un canto alla Vergine Maria; è con Lei che noi vogliamo ripartire e meditare tutti questi avvenimenti nel nostro cuore.

Padre Leopoldo si commiata da noi con un suo pensiero: “Siamo così arrivati al termine di questo itinerario sulla santa messa. Ho iniziato invitandovi ad essere curiosi come quando riceviamo un nuovo apparecchio e ad approfondire ciò che viviamo in ogni messa. Spero che questo scopo sia stato raggiunto nel corso di questi venticinque capitoli.
Non so quante siano le persone che hanno avuto la “forza e la costanza” di seguire tutto il percorso di questa catechesi….. Mi piace pensare che forse qualcuno ne ha tratto giovamento. E anche se non abbiamo capito proprio tutto della messa ─ è impossibile, talmente grande è il mistero ─, potremo tuttavia vivere la messa in modo più profondo. E’ un grande mistero, ma è un mistero d’amore”.
Un grazie di cuore a P. Leopoldo, ex Priore Francescano della Chiesa San Francesco di Brescia per il bellissimo insegnamento che ha voluto lasciare a tutti noi. Dio la benedica Padre Leopoldo!

Capire la Santa Messa - XXIV Appuntamento



Torna l'appuntamento con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:  

 CAPIRE LA MESSA

24° PARTE



I RITI DELLA COMUNIONE



La comunione del sacerdote e dei fedeli
Il celebrante e i ministri ordinati si comunicano con rispetto dicendo innanzitutto a voce bassa: “il corpo di Cristo mi custodisca per la vita eterna. Il sangue di Cristo mi custodisca per la vita eterna”. Questa invocazione riprende la promessa di Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). Ogni comunione fa crescere in noi la vita eterna ricevuta con il nostro battesimo.

I ministri ausiliari dell’eucarestia
Se il sacerdote è solo o se i ministri ordinati non sono abbastanza numerosi per dare la comunione a una grande assemblea, si faranno aiutare dai ministri ausiliari della comunione. Dopo aver seguito una formazione, i ministri ausiliari della comunione ricevono un mandato dal vescovo. Essi hanno anche la bella missione di portare la comunione alle persone malate e anziane.

Tendere le mani verso l’eucarestia
I fedeli, contrariamente ai ministri ordinati, non prendono il corpo di Cristo, essi lo ricevono dal ministro che lo dà loro. Questo bel gesto da mettere in relazione con l’ultima cena nella quale i discepoli hanno ricevuto il pane e il vino dalle mani di Gesù, ricorda che l’eucarestia è un dono, il dono di Cristo nella cena e sulla croce. Nessun dono è più prezioso di questo. Ciascuno sceglie, secondo l’uso locale e la sua propria sensibilità, di ricevere la comunione in bocca, seguendo l’abitudine adottata nel Medioevo oppure tenendo le mani come la chiesa autorizza dalla riforma liturgica dopo il Vaticano II, e secondo l’antichissima consuetudine cristiana. Così, san Cirillo, vescovo di Gerusalemme nel IV secolo, spiega ai neofiti: “Udendo dunque l’invito, non avvicinarti con le palme delle mani spalancate o con le dita distanziate. Ma nella mano sinistra fa un trono per la destra che riceverà il Re. Ricevi il corpo di Cristo nel cavo della tua mano e rispondi: Amen” l’Amen che noi pronunciamo è una vera professione di fede: si, è proprio vero, è il corpo e il sangue di Cristo che io ricevo, è il Signore che si dà a me e che io voglio accogliere con tutto il mio cuore; Egli viene a dimorare in me perché io dimori in Lui e sia sempre più suo discepolo. “Se voi siete il corpo di Cristo e i suoi membri, scrive sant’Agostino, è il sacramento di ciò che voi siete che viene deposto sulla mensa del Signore; è il sacramento di ciò che voi siete che voi ricevete. E’ a ciò che voi siete che voi rispondete Amen. Questa risposta è la vostra firma. Tu ascolti in effetti “Corpo di Cristo”. E rispondi: “Amen!”. Sii membro del corpo di Cristo perché il tuo Amen sia vero!”.

Diventare il corpo di Cristo
Comunicandoci noi diventiamo ciò che riceviamo. E’ dunque il contrario di ciò che accade abitualmente: quando mangiamo assimiliamo un alimento che perde la sua sostanza. Così, quando mangio del coniglio, non divento un coniglio (fortunatamente); è il coniglio che cessa di esistere in quanto tale e che “diventa” me. Ma quando noi ci comunichiamo, se vi consentiamo, perché il Signore rispetta sempre la nostra libertà, è il Cristo che ci “assimila” perché noi siamo uniti a Lui. Così possiamo dire con san Paolo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me”” (Gal 2,20).

La comunione sotto le due specie
La chiesa incoraggia, quando ciò è possibile, la comunione sotto le due specie del pane e del vino. Certamente, anche ricevendo soltanto il corpo di Cristo, i fedeli comunicano pienamente al Cristo totale, ma noi non rispondiamo perfettamente all’invito di Cristo che, dando il calice ai suoi discepoli ha detto: “Bevetene tutti” (Mt 26,27)

La frequenza della comunione
Nei primi secoli i fedeli si comunicavano spesso e si portavano anche a casa del pane consacrato per fare la comunione durante la settimana. Poi, al fine di sottolineare la grandezza di questo sacramento , si è arrivati a comunicarsi meno sovente, e anche soltanto qualche volta all’anno. Il Concilio di Trento incoraggiò la comunione frequente e il Papa Pio X la ristabilì effettivamente. La chiesa ci invita dunque a comunicarci ogni domenica e anche, se ciò è possibile, ogni giorno. Il fedele che partecipa pienamente a una seconda messa nello stesso giorno ha la possibilità di comunicarsi una seconda volta. Facciamo tuttavia attenzione a non comunicarci per abitudine seguendo il movimento della folla, ma accogliendo con tutto il nostro cuore il Signore che si fa cibo per noi.

L’azione di grazie
Dopo aver ricevuto un così grande “Tesoro”, è bene fermarsi un momento al fine di potersi rendere conto di ciò che è appena accaduto, di accogliere la presenza del Signore che viene a dimorare in noi. Tuti i liturgisti che ho consultato insistono sull’importanza del silenzio che segue la comunione. A proposito di questo momento di ringraziamento san Tommaso Moro (Thomas More) diceva: “Avendo ricevuto nostro Signore, avendolo presente nel nostro corpo, non lo lasceremo tutto solo per occuparci di altre cose senza più fare alcun caso a Lui: solo un maleducato tratterebbe in questo modo l’ultimo degli invitati. Gesù sia la nostra unica occupazione. E’ questo il momento di rivolgerci a Lui con una preghiera fervente, di intrattenerci con Lui con ferventi meditazioni”.
Che tristezza vedere la gente che scappa subito dopo la comunione! Un bambino, mentre sua nonna voleva andarsene subito dopo la comunione senza riservare un momento al ringraziamento le disse: “Ma nonnina! Il Signore non ha finito!”. San Filippo Neri vedeva che diversi parrocchiani uscivano dalla chiesa dopo aver ricevuto la comunione, senza concedersi il tempo di ringraziare il Signore per il dono della propria carne. Un giorno lui mandò due ministranti con delle candele ad accompagnare questi parrocchiani all’uscita della chiesa. Questi furono sorpresi e turbati  e chiesero al santo padre che cosa ciò significasse. Filippo Neri disse loro:  “Ho mandato i ministranti semplicemente per accompagnare il Santo Sacramento che hai ricevuto alla comunione affinché ringraziassero e lodassero il Signore al posto tuo”. Avendo ricevuto il signore, essendo così intimamente uniti a Lui, possiamo confidargli tutto. Possiamo intercedere per quelli che soffrono, e anche comunicarci per quelli che non vengono, chiedendo a Dio di riversare nel loro cuore le stesse grazie che riceviamo noi. Capite bene ora l’importanza di questo tempo di silenzio dopo aver ricevuto il Signore. Silenzio di raccoglimento. Silenzio di intimità con il Cristo. Silenzio di adorazione e contemplazione. Silenzio d’intercessione. Quale danno che il silenzio del dopo comunione non venga rispettato, o che sia così breve che si abbia appena il tempo di abbeverarsi! Dieci, quindici secondi….., come se si avesse fretta di ripartire! E’ nel silenzio che Dio lavora i cuori e agisce. E’ tempo di riscoprire il valore del silenzio nella liturgia.

Il canto di comunione
Questo canto di comunione permette all’assemblea di rendere grazie tutti insieme per il dono ricevuto e di meditare questo grande mistero. La corale può anche cantare mentre i fedeli si comunicano, e lasciare posto al silenzio dopo la comunione. Se non ci sono canti, come per esempio nelle messe della settimana, il sacerdote può leggere l’antifona proposta nel Messale. Queste antifone sono tratte dalla Bibbia, prese in prestito principalmente dai Vangeli e dai salmi. Variando a seconda della festa o del tempo liturgico, esse sono offerte alla nostra meditazione. Così, per la solennità dell’Ascensione il messale propone: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per la festa del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo: «Dice il Signore: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, e io in lui”» (Gv 6,56).


La preghiera dopo la comunione
I riti della comunione si concludono con una preghiera, una “Colletta” che il sacerdote dice a nome di tutti. E’ l’ultima delle tre orazioni variabili della messa dopo la preghiera di apertura e quella sulle offerte. In questa preghiera noi chiediamo al Padre che questa comunione porti abbondanti frutti e ci faccia crescere verso la vita eterna. Imploriamo anche la forza dello slancio missionario perché possiamo testimoniare ciò che abbiamo ricevuto. Prendiamo, per esempio, la preghiera della tredicesima domenica ordinaria; insiste sulla vita divina che abbiamo ricevuto e che è chiamata a portare frutto: “La divina eucarestia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore, sia per noi principio di vita nuova, perché, uniti a te nell’amore, portiamo frutti che rimangono per sempre. Per Cristo nostro Signore.

domenica 11 dicembre 2011

Capire la Santa Messa - XXIII Appuntamento

Concludiamo oggi l'appuntamento domenicale con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:



CAPIRE LA MESSA

ECCO L’AGNELLO DI DIO
N° 23

LA FRAZIONE DEL PANE

Ricordiamoci che la “frazione del pane” è la denominazione più antica della messa. Spezzare il pane è rifare, rinnovare il gesto di Gesù nell’ultima cena. La frazione del pane è un simbolo forte della passione e della morte di Cristo: il suo corpo è sppezzato come si spezza il pane. Nella messa, la frazione del pane è un gesto di preparazione alla comunione: l’unico corpo di Cristo è diviso perché tutti possano riceverlo e comunicarsi. Nei primi secoli si utilizzava del pane “normale”, fermentato, che portavano i fedeli; occorreva un certo tempo per poter dividere questo apne in tanti pezzetti quanti erano i fedeli. Più tardi, verso l’XI secolo, la chiesa latina stabilì l’uso di celebrare l’eucarestia con il pane azzimo (senza lievito), come aveva fatto il Cristo nella cena pasquale. Da allora, il gesto della frazione ha perduto la sua visibilità, poiché le ostie erano piatte e sottili. Solo quella del celebrante era spezzata, i fedeli si comunicavano con piccole ostie preliminarmente tagliate. La riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II ha richiesto che il rito della frazione ritrovi il suo significato. E’ dunque vivamente auspicato che il celebrante utilizzi un’ostia grande e possa così compiere visibilmente il rito della frazione del pane.

L’IMMISTIONE

Spezzando il pane, il sacerdote lascia cadere nel calice un frammento dell’ostia. Questo gesto si chiama immistione. (da immiscere, “unire a”, “mescolare con”). Qual è il senso di questo antichissimo gesto? Possiamo coglierne un triplice significato: temporale, ecclesiale e simbolico. In un senso molto pratico, può darsi che si immergessero un tempo nel calice i pani consacrati nelle messe precedenti, molto semplicemente per rammollirli. Questo gesto manifestava dunque l’unità del sacrificio eucaristico nel tempo: è sempre lo stesso sacrificio che noi celebriamo. Dal punto di vista ecclesiale, questo gesto segnava l’unità con il vescovo. Il più spesso possibile , i presbiteri concelebravano la messa presieduta dal vescovo. La domenica, il vescovo mandava degli accoliti a portare ai presbiteri, che celebravano la messa nei villaggi, un frammento dell’ostia che egli aveva consacrato. I sacerdoti mettevano questa particella nel calice in segno di unità con il vescovo. Oggi, questo vincolo di unità è significato dalla menzione del Papa e del Vescovo nella preghiera eucaristica. L’immistione conserva un significato simbolico molto profondo. Sull’altare il corpo e il sangue di Cristo sono separati; questo è un segno del suo unico sacrificio nel quale il suo sangue è stato versato sulla croce e, si potrebbe dire, è stato come separato dal suo corpo. L’immistione evoca all’inverso la resurrezione che ha unito per sempre, per la vita eterna, il corpo e il sangue di Cristo, compiendo questo gesto, il sacerdote chiede che noi abbiamo parte alla sua risurrezione: “il corpo e il sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna.

IL CANTO DELL’AGNUS DEI

Mentre il celebrante spezza il pane, l’assemblea canta: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”. Il messale precisa che questa invocazione potrà essere ripetuta tante volte quanto è necessario per accompagnare la frazione del pane. L’ultima volta, essa è conclusa dall’invocazione: “Dona a noi la pace”. Il canto dell’agnello di Dio è stato introdotto nella messa romana alla fine del VII secolo dal Papa Siriaco Sergio I. le parole provengono molto semplicemente dal Gloria (che risale almeno al IV secolo), nel quale noi cantiamo: “Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre, tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”. Oggi, la formulazione può porre qualche problema: alcuni pensano che essa non corrisponda più alla cultura contemporanea e sostituiscono l’Agnus Dei con un altro canto sul tema della pace.
Costoro passano accanto al significato profondo di questo canto che accompagna la frazione del pane, cioè il dono di Cristo, agnello pasquale, agnello immolato per noi.

«L’AGNELLO» NELLA BIBBIA

Il tema dell’agnello attraversa tutta la Bibbia, dal sacrificio di Abele che offrì a Dio i primogeniti del suo gregge (cf. GN 4,4) fino alle ventotto menzioni nell’Apocalisse di Cristo come l’Agnello che siede sul trono. Due testi di maggiore importanza devono essere messi in rilievo. Prima di tutto, quello dell’Esodo, che leggiamo nel corso della messa del giovedì santo: si tratta della prescrizione del sacrificio dell’agnello pasquale, preludio all’uscita dall’Egitto, il cui sangue versato sugli architravi salverà gli Israeliti dal decimo flagello (cf. Es 12,1-14). In secondo luogo, il quarto canto del Servo sofferente nel libro del profeta Isaia, letto all’inizio della celebrazione del venerdì santo: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di Lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.” (53,6-7). Così, il tema dell’agnello, che si immola per la salvezza di tutti, è molto presente nel pensiero semitico. Quando Giovanni Battista presenta Gesù ai discepoli, dice loro semplicemente: “Ecco l’Agnello di Dio” (Gv 1,36). I discepoli comprendono immediatamente che Giovanni designa il Messia atteso e si mettono a seguirlo.
Con il suo sacrificio, il Cristo “ricapitolerà” nello stesso tempo il rito espiatorio dell’agnello pasquale e l’offerta amorosa del servo sofferente.

LE PREGHIERE PRIMA DELLA COMUNIONE

Dopo la frazione del pane e il canto che l’accompagna, il sacerdote si raccoglie un momento e pronuncia una delle due preghiere che gli sono proposte, mentre i fedeli si preparano in silenzio a ricevere il loro Signore. proprio come la preghiera per la pace, questa preghiera si rivolge direttamente a Cristo, cosa che è eccezionale nell'ordinario della messa. “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo morendo hai dato la vita al mondo, per il santo mistero del tuo corpo e del tuo sangue liberami da ogni colpa e da ogni male, fa che io sia sempre fedele alla tua legge e non sia mai separato da te”. Questa prima formula risale al nono secolo. L’invocazione: “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo” è la ripresa della confessione di fede di san Pietro a Cesarea (Mt 16,16). Prima di consumare il Pane vivo, il sacerdote ripete con il capo degli apostoli la sua fede in Gesù che, con la sua morte, ha dato la vita al mondo. Questa confessione è trinitaria, poiché noi ricordiamo che Gesù ha sempre fatto la volontà del Padre che è di salvare tutti gli uomini, e che Egli agisce per la potenza dello Spirito santo. Poiché il sangue dell’Agnello purifica da ogni peccato, il sacerdote può chiedere che il corpo e il sangue di Cristo lo liberino dai suoi peccati e da ogni male. Egli implora anche la grazia di rimanere fedele ai comandamenti del Signore, e di non essere mai separato da Lui. Ecco l’altra formulazione che il sacerdote può utilizzare: “La comunione con il tuo corpo e il tuo sangue, Signore Gesù Cristo, non diventi per me giudizio di condanna, ma per tua misericordia sia rimedio e difesa dell’anima e del corpo”. Questa preghiera si ispira alla messa in guardia di San Paolo: “Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice, perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,27-29). Nel momento in cui si comunicherà, il sacerdote è ben consapevole della sua indegnità, ma fa appello alle parole del Signore che non è “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”
(Mt 9,13) e gli chiede che questa comunione lo sostenga e gli doni la guarigione.

“ECCO L’AGNELLO DI DIO!”

Dopo questa preghiera di preparazione alla comunione, il sacerdote fa una genuflessione, come aveva fatto dopo ciascuna delle consacrazioni. E’ un gesto di venerazione e di adorazione, prima di comunicarsi al corpo e al sangue di Cristo. Elevando l’ostia, egli invita i fedeli al banchetto eucaristico dicendo: “Beati gli invitati alla cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. E’ proprio con queste parole che Giovanni Battista aveva designato Gesù. Questo invito si proroga fino a noi: più che a un semplice pasto, noi siamo invitati “Al banchetto delle nozze dell’Agnello”.

SIGNORE, NON SON DEGNO

Di fronte a un tale invito, noi facciamo un atto di umiltà: “Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato!”. Queste parole riprendono l’atto di fede e di umiltà del centurione romano che chiese la guarigione del suo figlio (o servo), non sentendosi degno che Gesù andasse a casa sua: “Ma dì soltanto una parola, aggiunse, e mio figlio sarà guarito” (Mt 8,8). Così, anche noi ci sentiamo proprio indegni che il Signore venga a dimorare in noi con la comunione. Ma abbiamo fiducia in Lui che vuole darsi a noi per salvarci.

RICAPITOLANDO

Prima della comunione, viviamo il rito della “frazione del pane”: il celebrante spezza l’ostia consacrata, in segno di Cristo che si offre sulla croce e il cui corpo è spezzato. Egli la divide per significare che l’unico corpo di Cristo è distribuito tra tutti. Lascia quindi cadere un piccolo pezzo di ostia nel calice precisando che il corpo e il sangue di Cristo riuniti in questo calice sono un segno della risurrezione e che la nostra comunione è cibo per la vita eterna. Il rito della frazione è accompagnato con il canto dell’Agnus Dei. Noi riconosciamo che Cristo è l’Agnello di Dio che si è offerto per il perdono dei nostri peccati e per donarci la pace. Il sacerdote ci invita a partecipare alla mensa del Signore, banchetto di nozze dell’Agnello. Noi rispondiamo con umiltà e fiducia che è il signore che ci rende degni di partecipare a un tale banchetto. Al momento della frazione del pane, riconosciamo il Cristo, Agnello di Dio che prende su di se tutte le nostre colpe perché noi abbiamo la vita.

domenica 4 dicembre 2011

Capire la Santa Messa - XXII Appuntamento

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CAPIRE LA MESSA

LA PREGHIERA E IL RITO DELLA PACE
N° 22

LA PREGHIERA PER LA PACE

Con la preghiera che il sacerdote dirà a voce bassa proprio prima della comunione, questa preghiera per la pace è la sola ordinariamente rivolta Gesù nella celebrazione della messa. Nel corso della grande preghiera eucaristica rivolta al Padre, è come se noi facessimo una pausa per rivolgerci al Signore Gesù Cristo presente in mezzo a noi e ci distanziassimo un poco per vederlo meglio e dirgli il nostro amore. La Chiesa prende il suo Signore per i sentimenti, poiché gli ricorda le sue stesse parole: «Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”». Gesù le ha pronunciate al momento del grande discorso di addio: «Vi lascio la pace , vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14, 27). Questa pace non è come quella del mondo; non ha niente a che vedere con la pax romana, una pace che si impone con la propria supremazia. Più che una semplice assenza di conflitti, il Cristo ci offre una pace profonda, interiore. Quindi, noi ci riconosciamo peccatori davanti all’Agnello immolato e senza macchia: «Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa». Noi ci sentiamo davvero indegni di ricevere un tale dono, e la nostra fede è davvero debole. Per questo facciamo appello alla fede della chiesa, fondata dal Cristo che ha promesso che le forze della morte non prevarranno su di essa.
Il sacerdote prosegue: «E donale unità e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli». Noi imploriamo il dono della pace e dell’unità, perché l’eucarestia è il sacramento dell’unità. In effetti, noi riceveremo il medesimo corpo di Cristo per diventare insieme il corpo di Cristo che è la chiesa. Ma sappiamo bene, purtroppo, che l’unità della chiesa voluta dal Cristo non è realizzata, e che ci sono ancora tante divisioni. Allora, noi imploriamo questa unità, coscienti che soltanto il Cristo può condurre la sua chiesa e i suoi fedeli verso l’unità perfetta.

L’AUGURIO DELLA PACE

Dopo aver domandato a Cristo il dono della sua pace, il sacerdote può perciò augurarla a tutta l’assemblea: «La pace del Signore sia sempre con voi». I fedeli rispondono: «E con il tuo spirito», con la stessa densità di significato che abbiamo visto all’inizio della messa. Ricordiamo che la pace, shalom in ebraico, designa «ciò che è riempito», «ciò che è colmato». Solo il Signore può riempirci e colmarci pienamente.
La pace, scrive il cardinale Lustiger, «è la pienezza della vita con Dio, è la vita umana finalmente compiuta nella felicità perché Dio viene a porre la sua dimora in mezzo al suo popolo, è la vita dell’uomo trasfigurato dalla gioia di vivere con Dio tra i fratelli». La pace, è il compendio di tutti i beni; è il dono che Cristo porta con la sua nascita e con la croce. Risuscitato egli dirà ai suoi apostoli: «La pace sia con voi»
(Gv 20,19.21.26).
Comprendiamo ora la portata di questo augurio del sacerdote e della pace che ci daremo gli uni agli altri.

LO SCAMBIO DELLA PACE

Se pare opportuno, precisa il messale, il diacono o il presbitero invita i fedeli: «Come figli del Dio della pace, scambiatevi un gesto di comunione fraterna». Questo gesto non sempre è ben compreso. Alcuni si domandano perché è soltanto in questo momento della messa che si salutano i vicini…..Altri sono un po’ imbarazzati, perché non conoscono molto o anche affatto quelli che stanno loro vicino; forse non ci si è neppure mai parlati…..E’ proprio la prova che questo è un gesto esigente.
Bisogna dunque ricordare che cos’è il bacio della pace, e forse soprattutto che cosa non è: non è stretta di mano banalizzata né forzata. Non è il momento di andare a salutare le persone che non abbiamo ancora visto. Non è soltanto un gesto per dire che ci si vuol bene davvero e che si è contenti di stare insieme. Non è soltanto l’offerta di una pace superficiale o utopica, che pensiamo di realizzare da noi stessi. Il gesto di pace è un gesto antico, un gesto sacro, un gesto propriamente cristiano, radicato nelle Scritture. Non è la nostra pace che noi ci scambiamo, ma quella del Signore che noi condividiamo. Questo cambia tutto!
Noi riceviamo umilmente la pace di Cristo come un dono infinitamente prezioso che ci trasforma e ci rende capaci di accoglierci gli uni gli altri, malgrado i nostri antagonismi e le nostre controversie umane. San Cirillo di Gerusalemme scriveva già nel IV secolo con il bacio della pace «fonde le anime in una mutua amicizia e promette l’oblio di ogni offesa. Questo bacio è dunque segno che le anime sono unite tra loro e hanno deciso di dimenticare ogni oltraggio». Questo gesto esigente richiede che si consideri l’altro come una persona da rispettare e da amare. In alcuni casi, per scambiarsi in tutta verità il segno della pace, occorrerà aver perdonato dal proprio cuore colui o colei a cui si tende la mano. Nel rito romano, già dal V secolo, questo gesto è stato collocato dopo il Padre nostro con il quale ci siamo impegnati a perdonare i nostri fratelli poiché il Signore perdona noi. Prima di comunicarci, ci scambiamo un segno di pace. Infatti come potremmo, da un lato, avvicinarci a Cristo e manifestargli che noi lo amiamo e, dall’altro, rifiutare di volgerci a questo fratello o questa sorella che sta al nostro fianco? La parola di san Giovanni ci giudica: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). La maggior parte degli altri riti liturgici lo situano prima della preparazione dei doni, ciò che può comprendersi in riferimento alla prescrizione del Signore: «Se dunque tu presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
Avete notato che si parla di un «bacio di pace? Questo termine testimonia un affetto, una tenerezza che dovremmo avere gli uni verso gli altri. Tuttavia, normalmente, non ci si bacia. Non sarebbe del resto opportuno «darsi un bacino» come quando si incontra un conoscente. …….

RICAPITOLANDO

Prima di comunicarsi, il celebrante chiede a Cristo il dono della pace e dell’unità della chiesa e dei fedeli che si comunicheranno al medesimo corpo. Poi, egli augura la pace di Cristo a tutta l’assemblea. Invita i fedeli a darsi gli uni agli altri questa pace in segno di fraternità e di riconciliazione.
Riceviamo la pace di Cristo e facciamo attenzione che il nostro gesto di pace sia un vero segno di riconciliazione di fraternità.



domenica 20 novembre 2011

Capire la Santa Messa - XXI Appuntamento

Torna l'appuntamento domenicale con la meditazione sul significato della Santa Messa, con gli approfondimenti di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia:

CAPIRE LA MESSA
21° PARTE

PADRE NOSTRO

LA PREGHIERA DI GESU’

Secondo il catechismo della chiesa cattolica, il Padre nostro è il «compendio di tutto il Vangelo», la «preghiera fondamentale», quella che contiene tutte le altre preghiere che si trovano nella Scrittura. Questa preghiera è unica, poiché è Gesù stesso che ce l’ha insegnata. Nel Vangelo la troviamo sotto due forme In due contesti differenti. In Matteo (6,9-13), il Padre nostro è nel cuore del discorso della montagna (cap. 5-7). Tra l’elemosina e il digiuno, Gesù invita alla preghiera. Egli chiede di non pregare come gli ipocriti che amano dare spettacolo di se (6,5), né di ripetere continuamente parole come i pagani che si immaginano che sia a forza di parole che verranno esauditi. (6,7). Al contrario, Gesù ci ingiunge di ritirarci nella nostra camera, e di rivolgere la nostra preghiera al nostro Padre che è lì nel segreto. Gesù ci invita a pregare con fiducia perché, dice, «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (6,8). Aggiunge subito: «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli…..» (6,9). In Luca (11,2-4), i discepoli trovano Gesù mentre sta pregando. Lo osservano, aspettando che abbia finito, e poi gli chiedono umilmente: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (11.1). Gesù risponde loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoni amo ad ogni nostro debitore, e non indurci in tentazione» (11,2-4). Gesù comunica le parole della sua preghiera; ci svela così la sua maniera originale di parlare con Dio e l’intimità che lo lega al Padre suo, ci indica come pregare il Padre suo che anche noi possiamo, seguendo il suo esempio e accogliendo il suo invito, chiamare «nostro Padre». Dire questa preghiera con lui ci fa entrare in una relazione filiale. Questa preghiera non è la domanda dei servi a un padrone, ma quella dei figli al loro Padre i quali possono dire: Abba, cioè: “Papà”. L’inserimento del Padre nostro nella liturgia è molto antico. Il suo posto all’inizio dei riti della comunione si spiega con la richiesta: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Il pane celeste che Dio ci dà è proprio quello dell’eucarestia. E poi, perché nel momento in cui stiamo per comunicarci insieme, manifestiamo con questa preghiera che siamo fratelli e sorelle, dal momento che abbiamo lo stesso Padre.

LA MONIZIONE DEL PADRE NOSTRO

Il messale romano propone alcune monizioni per introdurre la preghiera del Padre nostro: «obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire». Questa prima monizione ci invita a prendere coscienza di ciò che stiamo per fare: se noi «osiamo» rivolgerci a Dio dicendo «Padre», è perché Gesù stesso ce l’ha insegnato e ci invita a farlo con Lui. Una seconda monizione esprime il ruolo dello Spirito Santo, uno Spirito di filiazione che ci spinge a chiamare Dio Abba, «Papà». «Il Signore ci ha donato il suo spirito. Con la fiducia e la libertà dei figli diciamo insieme».


LE PAROLE DEL PADRE NOSTRO

Ammettiamolo: il Padre nostro è una preghiera che sappiamo a memoria, che ripetiamo spesso, ma pensiamo veramente ciò che diciamo?
«Padre nostro»: Gesù ci invita dunque a entrare nella sua intimità col Padre, a pregarlo con Lui dicendo: “Abba”. Noi riconosciamo che <dio è nostro Padre, e che noi siamo suoi figli. Dire «nostro» Padre ci stabilisce in una grande comunione, poiché siamo figli e figlie di Dio, il quale è il Padre di tutti. Questa preghiera ci esorta a superare le nostre divisioni e le nostre opposizioni, e ci apre alle dimensioni di tutta l’umanità.
«Che sei nei cieli»: vuol dire che Dio è lassù nei cieli, dietro le nuvole, come se lo possono immaginare i bambini…..Prévert ha pronunciato questa celebre battuta di spirito: «Padre nostro che sei nei cieli, restaci!». Il cosmonauta sovietico Gagarin, di ritorno da una missione spaziale, aveva dichiarato solennemente: «Ho scrutato bene il cielo, non ho trovato Dio». Non si tratta evidentemente di un luogo, ma piuttosto di una maniera d’essere: questa espressione designa la sua santità, la sua maestà. I cieli designano il mondo celeste, il mondo di Dio, quello al quale noi tendiamo con tutto il nostro cuore. Dopo questa introduzione, glorifichiamo Dio con tre invocazioni che concernono il suo nome, il suo regno e la sua volontà.
«Sia santificato il tuo nome»: Nella Bibbia, il nome designa tutta la persona. Il verbo santificare significa riconoscere come santo. Noi vogliamo dunque dire: tutti possano riconoscere la tua grandezza, la tua santità, che tu sei Dio! La testimonianza della nostra vita permetta ai nostri fratelli di conoscere il tuo nome!
«Venga il tuo regno»: Noi domandiamo al Padre che il suo regno d’amore, di giustizia e di pace possa crescere in noi e per mezzo di noi.
«Sia fatta la tua volontà». La volontà di Dio, se si crede in Gesù,
è che tutti siano salvati. Dire: Sia fatta la tua volontà, è lavorare in questo senso. Significa entrare in un atteggiamento di fiducia.
Con l’espressione «Come in cielo così in terra», letteralmente «come in cielo così sulla terra», noi domandiamo che la volontà di Dio sia fatta da noi così come è fatta dagli angeli e dai santi. Possiamo anche vedervi una transizione verso le richieste che seguono e che ci riguardano, come il pane e il perdono.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»: dopo tre invocazioni di lode e prima di altre tre richieste per i nostri bisogni umani, questa è la preghiera centrale del Padre nostro. Questa richiesta comprende tutto ciò che concerne la nostra vita fisica e biologica (cibo, salute, abitazione, lavoro, ricerca della gioia e della verità, senso della vita ecc). noi manifestiamo la nostra fiducia in dio dal quale vogliamo ricevere tutto, tutto il nostro necessario per questo giorno.
«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»: il perdono è anch’esso una necessità per la nostra vita in società. E’ per questo motivo che Gesù insiste tanto sul perdono da dare agli altri prima di riceverlo da Dio. Egli sa bene che non è facile perdonare, e forse ancor meno chiedere perdono. Noi chiediamo a Dio di aiutarci.
«E non indurci in tentazione»: in questa preghiera risiede una grande difficoltà; potrebbe dare l’impressione che è Dio che ci spinge alla tentazione…..l’antica traduzione: «non lasciarci soccombere alla tentazione» era certo migliore (la nuova traduzione dice così: «Non lasciarci soccombere alla tentazione»). Bisogna dirlo chiaramente: non è Dio che ci tenta o che ci getta nella tentazione. Egli vuole al contrario liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci imboccare la via che conduce al peccato. Lo preghiamo di agire perché noi non entriamo in tentazione.
«Ma liberaci dal male»: Il male, dal quale chiediamo di essere liberati, è in primo luogo la malattia, l’incidente, la disgrazia, la fame, ecc. Gesù parla anche del «male morale» che sta alla radice degli altri mali, come la cattiveria, la crudeltà. Questo male morale comprende le devianze personali (peccato, inganno, menzogna, furto) e le devianze collettive (razzismo, guerre, schiavitù, ingiustizie). Gesù ci invita anche a chiedere al padre di liberarci dal Male con la “M” maiuscola, dal Malvagio, dal Tentatore. Egli stesso non è stato risparmiato da satana, e sa che anche i suoi discepoli dovranno lottare. Come ultima risorsa, Gesù si carica egli stesso di tutti questi mali, e ne esce vincitore per mezzo del perdono e dell’offerta di se stesso per noi, sulla croce.

L’EMBOLISMO

Embolismo significa letteralmente “intercalare”, “mettere dentro”. Nella liturgia, l’embolismno è la preghiera, recitata dal solo celebrante, che “si intercala” tra il Padre nostro e la dossologia. Essa sviluppa e amplifica l’ultima domanda del Padre nostro: “Liberaci dal male”, da dove precisamente derivano le sue prime parole: “Liberaci, o Signore, da tutti i mali”. Composta dalla chiesa di Roma al tempo in cui essa era vittima delle invasioni barbariche, questa è una preghiera di supplica pressante per far fronte alle avversità. Noi chiediamo al Signore anche il dono della pace, la liberazione dal peccato, la felicità promessa collegata all’ultima venuta di Cristo:
“Concedi la pace ai nostri giorni”: comprendiamo bene l’importanza di questa domanda. La pace è un dono prezioso, vitale per l’armoniosa esistenza dell’umanità. Portando il mondo intero nella nostra preghiera, imploriamo la pace per il nostro tempo, specialmente per tutte le regioni che vivono di pesanti conflitti armati, ma anche per la pace del nostro paese e nelle nostre famiglie.
“E con l’aiuto della tua misericordia, vivremo sempre liberi dal peccato”: Poiché Cristo si è offerto per il perdono dei peccati, la chiesa insiste perché la misericordia di Dio liberi i fedeli dai vincoli del peccato.
“E sicuri da ogni turbamento”: il verbo “rassicurare” è un po’ lezioso. L’espressione latina è più forte: ab omni perturbatione securi. Letteralmente: “da tutte le perturbazioni”, (turbamenti), “che noi siamo nella sicurezza, esenti dal pericolo”. Potremmo tradurre così: “Rendici forti davanti alle prove”. E’ dunque una bellissima domanda con la quale chiediamo al Signore la sua presenza e la sua forza per lottare contro le prove che incontriamo.
“Nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”: La conclusione dell’embolismo ha una risonanza escatologica, ci orienta verso gli ultimi tempi. Questa felicità che noi attendiamo, o piuttosto questa “Beata speranza”, è proprio il ritorno di Cristo nella gloria.

LA DOSSOLOGIA DEL PADRE NOSTRO

L’embolismo del Padre nostro richiama una dossologia (“Parola di gloria”): “Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli!”. Questa dossologia è antichissima. Certo non si trova nel Vangelo (anche se è stata aggiunta in alcuni manoscritti del Vangelo secondo Matteo), ma risale al II secolo, o addirittura anche al I.
La si trova in ogni caso nella Didachè, uno dei testi cristiani più antichi. Questa formula non fa che riprendere un certo numero di dossologie che ornano la scrittura, come quella che troviamo nel libro dell’Apocalisse: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli” (5,13). La maggior parte delle chiese dell’Oriente e della Riforma utilizzano questa dossologia dopo il Padre nostro nella loro liturgia. Integrandola nella messa romana, il nuovo messale si congiunge alla tradizione delle altre chiese cristiane.

RICAPITOLANDO

Prima di fare la comunione, preghiamo il Padre con le stesse parole di Gesù, con la grande preghiera del Padre nostro. Questa preghiera ci prepara bene alla comunione, dal momento che chiediamo al Padre di darci il pane quotidiano. Questa preghiera è seguita da un embolismo che sviluppa tre temi che ritroveremo nel seguito dei riti della comunione: la pace, la liberazione del peccato, la felicità promessa collegata all’ultima venuta di Cristo. Essa si conclude con una dossologia aggiunta al Padre nostro nei primi secoli. Quando preghiamo il Padre nostro, prendiamo bene coscienza della portata di ogni domanda!

venerdì 18 novembre 2011

Itinerari di fede - XIV appuntamento

Torniamo a meditare attraverso il nuovo percorso ricco di diversi itinerari, sempre scritti dalla mano di padre Leopoldo, Priore Francescano Conventuale della Chiesa di San Francesco di Brescia (ringraziamo sempre Enza per l'opera non facile di trascrizione), concernenti ora la vita spirituale:

LA VITA SPIRITUALE (PARTE QUARTA)

LA CREAZIONE È LO SPLENDORE DELL'AMORE DI DIO RIFLESSO NELLE SUE CREATURE

Anche nella CREAZIONE l'anima "vede" l'Amore dello Sposo tanto amato, riflesso come la luce del sole che ne è il segno più evidente in tutte le sue creature. Ogni essere dell'universo racconta il Poema di questo
Amore, che si manifesta nella PROVVIDENZA del Padre: "LUI mi HA TRATTO DAL NULLA e mi FA CONTINUAMENTE SUSSISTERE con la sua ONNIPOTENZA; LUI mi GOVERNA con la sua infinita SAPIENZA".
"I cieli narrano la GLORIA di Dio e l’opera DELLE SUE MANI ANNUNCIA il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il Messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia" (Sal. 18,2-3).
Il Figlio Gesù Cristo è venuto a rivelarci la Gloria del Padre che risplende anche nella CREAZIONE. EGLI canta la PROVVIDENZA del Padre, sempre in opera nell'universo, con accenti di tenerezza filiale inconfondibile, rimproverando l'uomo per la sua cecità di fronte a questo GRANDE AMORE "Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete e neanche per il vostro corpo di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?" (Mt. 6,25-28)
Tutta la CREAZIONE proclama che LO SPLENDORE DELLA VERITÀ È L'AMORE.
• Anche tu, fratello, sorella, che nella CREAZIONE sei "Immagine e Somiglianza vivente di Dio", proclami che lo scopo e la pienezza della vita è L'AMORE. Proprio perché Dio è Amore, tu sei creato per amare. Il più grande rammarico per tutti sarà alla fine quello di non avere amato abbastanza.
La Vita Spirituale raggiunge il suo apice nel grado di Amore-Comunione che l'anima riesce a raggiungere con il suo Sposo. Per questo S. Agostino, a chi chiede di dare una risposta pratica al senso della vita, dice: "AMA e CAPIRAI". Nell'inno alla CARITA' San Paolo esalta l'eccellenza dell'amore su tutti i carismi e su tutte le altre virtù ( Cfr. 1 Cor. 13,1-13 ). Nel brano appena citato, l'Apostolo afferma che tutto finirà, ma "la CARITÀ non avrà mai fine" (1 Cor. 13,8). Partecipare dunque in pienezza ed eternamente all'amore di Dio, Uno e Trino, è lo scopo ed il traguardo della VITA SPIRITUALE. ALBERT SCHWEITZER è un grande medico e filosofo francese del secolo XX. Giunto alla piena maturità della vita, mentre era già affermato nella carriera e viveva agiatamente, ha abbandonato l'Europa. Si è recato in Africa equatoriale per fondare un centro ospedaliero dove ha assistito e curato, per una cinquantina d'anni, gli abitanti indigeni. La sua filosofia della vita l'ha tradotta in queste parole, che rimangono come il suo Testamento Spirituale:
"l'unica cosa importante, Quando ce ne andremo, saranno le TRACCE D AMORE Che avremo lasciato".
L'uccello canta, Ma non domanda se qualcuno l'ascolta:
La sorgente scorre, Ma non domanda perché scorre.
L'albero fiorisce Ma non domanda se qualcuno lo guarda.
Albero, uccello, sorgente, Il loro dono lo danno per niente.

Canto popolare.

LA VITA SPIRITUALE E’ UN CAMMINO: il cammino dell'anima verso Dio. Come il cammino è fatto di TAPPE INTERMEDIE prima di raggiungere la META o il traguardo del viaggio, così nella Vita Spirituale l'uomo non può raggiungere Dio se non percorrendo le TAPPE del Cammino Spirituale CHE CONDUCE a Lui. La vita è una STRADA. L'importante è camminare sulla strada, anche se faticosa, verso la META. La vita invoca una meta, pena l'apatia, la disperazione, il fallimento. Cristo si è fatto per te VIA per accompagnarti e sorreggerti nel VIAGGIO DELLA TUA VITA INCONTRO AL PADRE. Non ti esime, però, dal compiere la tua parte. Senza la tua volontà e il tuo impegno assiduo, quotidiano, di seguire LUI, tu non cammini sulla STRADA. Nella VITA SPIRITUALE fermarsi significa retrocedere. Medita le parole del grande dottore della Chiesa S. Agostino, sopra citate. "Se dici 'Basta' sei perduto. Avanza sempre, cammina sempre", ricordandoti che su questa strada non sei mai solo … I Maestri di vita nello Spirito hanno tracciato l'itinerario che progressivamente conduce l'anima ad incontrare Dio.

È L'AVVENTURA PIÙ AFFASCINANTE DELLA VITA.
Eccone le varie tappe:

INIZIO DEL CAMMINO
La VITA SPIRITUALE è un DONO che Dio fa all'uomo.
II "Bagaglio Umano”, cresce sempre più comprese le esperienze negative. NELLA FEDE, l’uomo viene assunto e "trasfigurato": diventa ESPERIENZA DI DIO. Giungerà in cielo. La GLORIA che ognuno godrà in Paradiso sarà proporzionale al grado di Santità raggiunto nel Cammino della Vita Spirituale. Il Percorso è SENZA LIMITI, perché tra l'uomo e Dio la distanza è infinita: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt. 5,45).

LA SORGENTE DELLA VITA SPIRITUALE E’ LA PASQUA DI GESU’ (Passione Morte Risurrezione). "Dalla sua pienezza - dice S. Giovanni - noi tutti abbiamo ricevuto e Grazia su Grazia" (Gv 1,16). Questa pienezza di Grazia ci viene donata mediante i Sacramenti. Nel BATTESIMO, che fonda la VITA SPIRITUALE perché fonda la VITA CRISTIANA, per opera dello SPIRITO SANTO veniamo INCORPORATI IN CRISTO. In LUI diveniamo FIGLI DI DIO e quindi COEREDI CON LUI della VITA ETERNA nella GLORIA. LA VITA SPIRITUALE è un CAMMINO CON CRISTO, dall'ESPERIENZA dolorosa e drammatica della LOTTA in mezzo alle TENTAZIONI nel DESERTO, fino all'ESPERIENZA BEATIFICANTE della CONTEMPLAZIONE di Dio sul TABOR. Il Padre chiama ogni
anima a percorrere questa strada verso il MONTE SANTO, per "trasfigurarla" nel proprio FIGLIO.
Il Cammino è lungo e faticoso. Ma, se è fedele a seguire lo Spirito Santo che la illumina, la guida, la fortifica, la persona inizia a vedere la propria vita con occhi nuovi: gli occhi della Fede. Sotto questa Luce, essa percepisce anzitutto la gravità del peccato come l'unico vero male che si oppone a Dio. Il primo passo nella VITA SPIRITUALE, ed in ogni Cammino di Conversione, è la detestazione della colpa, perché Dio non può abitare nel cuore dove regna il Maligno ossia dove l'uomo vive in uno stato di ribellione contro di Lui. Alle origini dell'umanità, come ci attesta la Bibbia, il peccato dell'uomo e della donna è stato la causa di tutti gli altri mali, sintetizzati nella morte ( Gen. c.3) "Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con esso la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" ( Rm. 5,12 ). Nella VITA SPIRITUALE, la visione che un'anima ha nei confronti del peccato è direttamente proporzionale al senso che ha di Dio. Chi minimizza il peccato, manifesta praticamente di non prendere sul serio Dio, il suo Mistero di Amore rivelatoci dalla croce, la sua infinita Santità. Meditiamo in proposito le parole dell'Apostolo Pietro che ci svelano qual è il costo del nostro peccato. "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma CON IL SANGUE PREZIOSO DI CRISTO, Agnello senza difetti e senza macchia " (1Pietro 1,18-19). Agli inizi del Cammino Spirituale, l'anima viene illuminata soprattutto su due gravi insidie del male, che traggono in inganno e fanno cadere molte persone: la malizia dell'orgoglio, primo vizio capitale che li riassume tutti, e la nefasta seduzione che esercitano il denaro e le ricchezze sul cuore umano. La persona orgogliosa non vive nella verità del proprio essere di creatura, ma si autoinnalza al di sopra di se stessa e al di sopra degli altri, ponendosi di fatto, come i Progenitori, al posto di Dio. L'Apostolo Giovanni smaschera la SUPERBIA, come anche gli altri due vizi capitali che maggiormente "tiranneggiano" il cuore dell'uomo: l'AVARIZIA e la LUSSURIA. Questi tre vizi, ai quali l'uomo si abbandona più facilmente, dimenticando il suo rapporto con Dio Creatore e Padre, possono essere sintetizzati concretamente nei tre verbi: POTERE, AVERE, GODERE.

"Tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza (=desiderio sfrenato) della carne, la concupiscenza degli occhi, la SUPERBIA della vita non viene dal Padre, ma dal mondo" (I Gv. 2,16 ). L'orgoglio poggia tutto su una grande menzogna, che tende a divenire mistificazione dei valori. Ogni vizio, come ogni peccato, cercano sempre di camuffarsi, per non apparire nella loro cruda realtà. Soltanto la Parola di Dio, che è " la Spada dello Spirito", (Ef. 6,17) sa smascherarli pienamente. Ecco la menzogna di fondo: "Che cosa mai possiedi - ci dice San Paolo - che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?" (1 Cor. 4,7)... Quando pecchi, tu usi sempre i doni di Dio per rivoltarti direttamente contro di Lui e offenderlo. L'altra insidia che minaccia maggiormente l'uomo nel Cammino Spirituale, e che l'anima inizia a smascherare, è l'avidità del denaro e delle ricchezze. Anche se continua ad essere tentata dalla cupidigia di possedere, viene gradualmente illuminata sulla caducità e sulla insaziabilità dei beni materiali, dai quali, purtroppo, molte persone vengono sedotte. E' ancora San Paolo che ci mette in guardia dall'assecondare il desiderio di arricchire. Esso, per chi vi cede, diventa una vera trappola che ingabbia il suo cuore in una "fame di possesso" che è senza limiti. Questa a sua volta diventa il movente che causa, oltre a molti affanni, preoccupazioni e tribolazioni, anche tanti soprusi ed ingiustizie nei confronti del prossimo. "Quelli che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali" ( 1 Tim. 6,9 ). Come sono vere queste parole…! L'esperienza della storia e la cronaca quotidiana ne offrono ampia conferma. La bramosia sfrenata del denaro è la causa che scatena i delitti, gli atti di violenza, i furti e tutte le organizzazioni delinquenziali.